Il jobs act, con le tutele eufemisticamente definite crescenti, ha creato indiscutibilmente una “gabbia” dei diritti e delle tutele, ha creato lavoratori a due velocità; come si era diffusamente previsto, questa differenziazione non ha solo inciso sui diritti dei nuovi assunti, ma nel tempo sta dando luogo a pressioni sempre maggiori sul personale più anziano perché più garantito. Qui un approfondimento sul tema.
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Il mio spazio di osservazione è quello di avvocato che da anni lavora a fianco e per la difesa delle lavoratrici e dei lavoratori vittime di mobbing, di molestie sessuali e di disfunzioni organizzative.
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In questo intervento mi è stato chiesto di tracciare i mutamenti che a mio avviso sono avvenuti dopo jobs act nelle materie che mi occupano.
In particolare dovrei provare a rispondere a due domande.
- Il jobs act ha contribuito ad aumentare le situazioni di molestie a sfondo discriminatorio nei riguardi del personale più garantito (ovvero quello assunto pre jobs act)? E se si, in quali ambiti principalmente?
- Il jobs act (probabilmente a sua insaputa) ha reso possibili maggiori spazi interpretativi a tutela delle persone con disabilità?
A entrambe le questioni mi sento di dare risposta affermativa e vi porto quindi notizie cattive ma anche notizie buone.
Anche a fronte della cattiva notizia, tuttavia, sono possibili dei rimedi e delle resistenze, come vedremo, laddove sia invocabile la normativa antidiscriminatoria o quella in materia di salute e sicurezza all’interno dei luoghi del lavoro.
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Il Jobs act ha contribuito a creare condizioni e terreno fertile per l’incremento delle situazioni di molestie a sfondo discriminatorio nei riguardi del personale più garantito.
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Facciamo rapidamente un passo indietro e ricordiamo la definizione di molestie morali a sfondo discriminatorio: si tratta di comportamenti indesiderati posti in essere per uno o più motivi odiosi (razza, etnia, genere, orientamento sessuale, convinzioni personali, età, disabilità) aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima ostile, intimidatorio, umiliante degradante e offensivo (dd.llggss. antidiscriminatori 215 e 216 del 2003 e 198 del 2006, di derivazione comunitaria).
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Ebbene, con riguardo alla materia che qui mi occupa, ho notato come accennavo un peggioramento generale della situazione rispetto a prima con riguardo principalmente a due istituti: il licenziamento per via disciplinare e le mansioni.
Innanzitutto va ricordato che il jobs act e in particolare il d.lgs 23/2015, con le tutele eufemisticamente definite crescenti, ha indiscutibilmente creato una “gabbia” dei diritti e delle tutele.
In sostanza esistono ora come sappiamo due categorie di lavoratori, una meno tutelata e che negli scorsi anni è stata anche coinvolta nelle agevolazioni contributive e l’altra più tutelata sol perché assunta prima del 7 marzo 2015.
Come si era diffusamente previsto, questa differenziazione non ha solo inciso sui diritti dei nuovi assunti, ma nel tempo sta dando luogo a pressioni sempre maggiori sul personale più anziano perché più garantito.
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E a questo proposito mi ha colpito e fortemente insospettito un dato ricavabile dal rapporto Inps sul precariato: 15 mila licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo in più nel 2016 rispetto al 2015 (59.008 contro nel 2015 e 74.674 nel 2016; 26% in più); il differenziale tra il 2014 e il 2015 – quando cioè il jobs act non aveva ancora spiegato i propri effetti – era di sole 3000 unità in più.
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Anche se non siamo in possesso del dato disaggregato, sono convinta – in generale – che si tratti, per lo più, di lavoratori pre jobs act.
Perché possiamo sostenere questo?
- innanzitutto i lavoratori post jobs act possono essere, per così dire, più agevolmente licenziati per gmo, stanti le minori incertezze sul fronte della possibile reintegrazione, ancora prevista per il gms seppure in casi residuali, come sappiamo.
E inoltre perché
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2. Da una rapida ricognizione delle sentenze e dei casi trattati dal Tribunale di Milano, sezione lavoro, i licenziamenti per gms in jobs act sono davvero esigui.
- I casi che – nel nostro studio – sono capitati riguardano prevalentemente lavoratori pre jobs act.
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Detto questo posso riportare un ulteriore dato, frutto della mia personale esperienza e del confronto quotidiano e costante con i colleghi di area pro-labour: il Jobs act e, in particolare, le tutele crescenti hanno, come si diceva, contribuito a creare il terreno fertile per l’aumento dei licenziamenti per via disciplinare a sfondo molesto e discriminatorio nei riguardi dei lavoratori pre jobs act.
Su un incremento del 26% che abbiamo segnalato e comunque sul dato complessivo (74.627), una parte di questi licenziamenti sarà stato legittimo, altra parte illegittima e tra questi ve ne è un numero significativo in cui ho ravvisato, dopo un’approfondita intervista e raccolta di informazioni, la matrice discriminatoria.
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La situazione discriminatoria e di molestia, laddove verificata, riguarda in particolare alcune categorie di lavoratori.
Quelle più colpite sono i lavoratori in età non più giovane e i caregivers, ovvero familiari lavoratori che assistono congiunti in 104, licenziati dopo un umiliante e assiduo pedinamento tramite agenzia investigativa perché accusati di utilizzo abusivo dei permessi 104. Queste due categorie, come diremo, sono anche quelle più coinvolte dall’uso distorto della nuova normativa in tema di mansioni.
Dopo aver letto il d.lgs. 23, il dubbio che lo strumento disciplinare potesse essere utilizzato con lo scopo di liberarsi di personale non più giovane ma più garantito mi è venuto immediatamente perché già in precedenza avevo assistito lavoratori e lavoratrici di età avanzata o caregivers che, dopo aver subito pressioni per un pre-pensionamento o una mobilità, sono state licenziati con un pretesto, magari dopo un tempo di osservazione pervasiva e accanita.
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Ma tornando ai casi sopra esemplificati dei lavoratori non più giovani e dei caregivers, come mi sono mossa nell’assistenza? Ho in via principale invocato la normativa antidiscriminatoria già sopra richiamata per chiedere la nullità dei recessi. Ciò dopo naturalmente un’approfondita analisi della situazione e una raccolta di tutte le prove e indizi necessari.
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Alla fine cosa abbiamo ottenuto? in parte reintegrazioni (sfociata in opzione) e in parte conciliazioni giudiziali su base economica. Difficilmente lavoratori così trattati desiderano rientrare al lavoro. E le aziende hanno quindi ottenuto il risultato di essersi comunque liberate in via definitiva di personale ritenuto scomodo o con “troppi” diritti.
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Ora passiamo brevemente a un’altra norma, il nuovo 2103 (e lo jus variandi più ampio) che ha contribuito all’incremento dei casi di molestie o discriminazioni sempre nei riguardi del personale più garantito. In che modo?
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L’ampio margine di discrezionalità di cui gode il datore di lavoro che emerge del nuovo articolo 2103 [1] aumenta il rischio dell’esercizio dello ius variandi per ragioni illecite; in particolare, l’assegnazione del lavoratore a mansioni del tutto eterogenee, seppure riconducibili al medesimo livello di inquadramento, accompagnato dalla dichiarata assenza di sanzioni rispetto all’omissione di formazione potrebbe indurre a utilizzare la norma con un intento discriminatorio o di molestia.
Facciamo qualche esempio partendo dalla mia esperienza: un contabile viene assegnato alle mansioni di commerciale “spinto” al fine di stancarlo, di fiaccarne la resistenza psicologica e indurlo alle dimissioni perché di età avanzata oppure perché caregiver.
Questa persona si trova catapultata in altro reparto senza, ad esempio, avere ricevuto una formazione adeguata, un supporto all’inserimento o persino una formazione e spiegazione sulle nuove mansioni. Questo lo espone fortemente, nei mesi a seguire, alla lesione della propria dignità e decoro come persona e come professionista nonché al rischio stress lavoro-correlato.
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Casi di questo genere sono frequenti. Come orientarsi in questi casi per tutelare il lavoratore e dimostrare che è effettivamente vittima di discriminazione e/o di condotte moleste a sfondo discriminatorio?
Personalmente posso dire che, dopo il jobs act, sto se possibile ancora più attenta a verificare se, così come per i licenziamenti, anche gli spostamenti “scomodi” e sgraditi per il lavoratore abbiano lo scopo – passatemi il termine forte – di epurare. Troverei infatti alquanto sospetto che il datore di lavoro potesse compiere un atto che sfavorisca anche lui (quale quello di destinare un lavoratore ad altro settore per cui è totalmente impreparato senza formarlo).
In particolare dall’intervista al lavoratore cerco di capire le motivazioni dello spostamento, se sussistono mail, conversazioni, frasi minacciose, precedenti condotte marginalizzanti o ritorsive ai danni di persone facenti parte della stessa “categoria a rischio” o di altre assimilabili (età, genere, ecc.) ecc.. Le testimonianze sono fondamentali.
Ulteriore norma invocabile è l’art 2087 del cc. e tutta la normativa in tema di salute e sicurezza del lavoratore.
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Come anticipato nella premessa, tuttavia, esiste una buona notizia che il combinato tra la normativa antidiscriminatoria e il nuovo 2103 consente di condividere: L’estensione dell’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli”
Si tratta di un ambito in cui il nuovo 2103 c.c. potrebbe essere utilizzato per ampliare i confini della tutela della salute e della dignità dei lavoratori disabili nonché dell’obbligo di ripescaggio (dei disabili e non [2]); ed infatti se da un lato si è allargato il potere direttivo e lo ius variandi, dall’altro e contemporaneamente si è ampliato il dovere di cooperazione e di collaborazione del datore di lavoro nel reperimento di una nuova occupazione in caso di incapacità sopravvenuta alla prestazione specifica. E ciò scrutando l’intero organigramma, in lungo e in largo.
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Procediamo con ordine e partiamo anche qui dalla nozione di handicap come elaborata dalla normativa sovranazionale e dalla giurisprudenza comunitaria e interna; nella nozione di handicap non rientra solo la persona riconosciuta disabile in base alla normativa interna, ma anche e soprattutto la persona che – in base alla definizione “allargata” di handicap resa dalla CGUE – sia affetta da una malattia ed una limitazione “risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata) [3].
E così ad esempio anche un lavoratore che viva un periodo lungo di depressione o attacchi di panico, ancorché non sia “ufficialmente” disabile, si potrebbe ipotizzare che rientri in tale definizione e pensare all’obbligo, in capo al datore di lavoro, di adottare i ragionevoli accomodamenti e assegnarlo in via temporanea a mansioni il meno possibile stressanti.
Ma cosa sono i ragionevoli accomodamenti? Costituiscono espressione del dovere di cooperazione del datore di lavoro nei riguardi di persone in condizione di particolare svantaggio perché disabili.
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Accomodamento ragionevole, secondo la convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità le cui definizione sono state integralmente recepite nel nostro ordinamento e sono dunque legge, “indica le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali”. Sempre la convenzione ONU equipara il rifiuto di adottare un accomodamento ragionevole ad una discriminazione.
I ragionevoli accomodamenti sono regolati dalla direttiva 2000/78, dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e dal d.lgs. 216/2003 sulle discriminazioni per ragioni, tra le altre, di handicap come modificata dal d.l. 28 giugno 2013, n° 76 convertito in legge 99/2013.
Ma perché il 2103 in questo caso ci aiuta? Perché dal nostro punto di vista estende il dovere di ripescaggio all’intero organigramma.
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Ad esempio, nel caso di licenziamento per inidoneità sopravvenuta della persona disabile l’azienda dovrà essere testata non solo sulla possibilità di accomodamenti logistici-architettonici (pedane, scivoli, ecc.), non solo sulla possibilità di accomodamenti organizzativi (cambi orari, turni, ecc.) …
…ma anche sulla possibilità e percorribilità di accomodamenti legati alle mansioni più ampi rispetto a quelli già previsti dalla normativa (l. 104/92, 68/99, d.lgs. 81/08, artt. 41 e 42).
Si pensi ad esempio al dirigente al quale viene per disgrazia un ictus….dopo la riabilitazione questa persona non può più svolgere mansioni di dirigente né mansioni immediatamente inferiori, ma mansioni di impiegato d’ordine. L’azienda dovrà provvedere ad offrirle/proporle se si tratta di un accomodamento, appunto, ragionevole e se il dirigente è disponibile? Dal mio punto di vista si.
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L’azienda dovrebbe cioè vagliare la possibilità della ricollocazione, percorrendo l’intero organigramma in lungo e in largo.
Arrivando al 6° comma dell’art. 2103 c.c., quello sulla novazione ex art. 2113 c.c., che stabilisce: Nelle sedi protette possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”).
Con il correlato aspetto che, in caso di giudizio, il giudice verificherà concretamente l’organizzazione del datore di lavoro, gli “guarderà in casa”, anche tramite un proprio consulente tecnico, per arrivare a dire in concreto come si sarebbe dovuto e potuto fare o fare meglio. E adotterà i provvedimenti di legge, incluso il risarcimento del danno morale, qualora verifichi che il datore di lavoro ha omesso di adottare gli accomodamenti di cui abbiamo parlato, ad esempio legati alle differenti mansioni. In questi casi, trattandosi peraltro di condotte discriminatorie, il sindacato del giudice sull’organizzazione ha decisamente minori limiti, legati soltanto alla verifica della ragionevolezza degli accomodamenti possibili nello specifico.
Da quanto detto emerge che in un momento storico in cui il ripescaggio appare ormai morto a maggior ragione per ciò che attiene i licenziamenti in era jobs act (dato che, se anche l’azienda non lo applica, rischia solo un modesto risarcimento come sappiamo) vi è la concreta possibilità che possa invece riaffermarsi con forza laddove il mancato ripescaggio costituisca una violazione del ragionevole accomodamento e quindi una discriminazione [4].
E questo, naturalmente, vale per tutti, per gli assunti prima e dopo il jobs act.
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Il diritto del lavoro è profondamente cambiato. Le riforme degli ultimi anni – epocali – hanno determinato un arretramento del livello di tutela del lavoratore. Dunque, nuove strade possono e debbono essere percorse, il diritto antidiscriminatorio potrà essere utilizzato, principalmente, quale baluardo e limite per i licenziamenti, ma anche per contrastare casi di utilizzo abusivo del potere direttivo e del potere di controllo, unitamente all’art. 2087 cc. .
Nel contempo, la nuova norma sulle mansioni può costituire uno strumento per rafforzare ed ampliare la tutela effettiva del lavoratore con disabilità sia in costanza di rapporto, sia in caso di licenziamento.
Grazie per l’attenzione!
[1] Si riportano le parti che richiameremo nella relazione.
2103 c.c., comma 1°. Prestazione del lavoro. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
2103 c.c., comma 3°. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Va subito detto che sul primo comma c’è una evidente questione mancato rispetto dei confini della delega, con relativo profilo di incostituzionalità ex art. 76 cost.; infatti l’art. 1, comma 7, lett. e) della legge 183/2014 così dettava al Governo:
e) revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera;
[2] Si veda Trib. Torino, est. Aprile, ord. 5 aprile 2016: “In ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro (a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 2103 c.c.) deve dimostrare di non aver potuto impiegare il lavoratore in mansioni diverse, anche di livello inferiore” (http://www.wikilabour.it/public/Segnalazioni/6666feca-f8cc-4e6d-a151-ec82890b3b0f/20160405_Trib-Torino.pdf)
[3] CGUE, HK Danmark, C-335/11 – Nozione sociale e dinamica di disabilità
«la disabilità è un concetto in evoluzione e (…) è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». «Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
«la nozione di handicap» non contenuta nella Dir. 2000/78/CE «va intesa come una limitazione che deriva, in particolare, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona alla vita professionale».
«In base alle considerazioni di cui sopra, si deve rispondere alla prima e alla seconda questione dichiarando che la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata.» (punto 47).
Si veda anche l’art. 15 della Carta dei diritti universali del lavoro (proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla CGIL): Diritto a soluzioni ragionevoli in caso di disabilità oppure di malattia di lunga durata: 1.Tutti i lavoratori che, a causa di una disabilità o di una malattia di lunga durata, diagnosticata come curabile o incurabile, subiscano, in relazione all’esercizio della loro attività, una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori,hanno diritto a soluzioni ragionevoli, materiali e organizzative, compresa la modifica degli orari e, più in generale, dei tempi di lavoro, necessarie a consentire l’accesso al lavoro e lo svolgimento della prestazione lavorativa.
[4] Precedenti molto interessanti, anche se non riguardano l’applicazione del nuovo 2103, in tema di ragionevoli accomodamenti sono Tribunale di Pisa, ord., Tarquini est., 16 aprile 2015, che parlando sempre di ragionevoli accomodamenti afferma che potrebbero ritenersi praticati “solo ove fosse verificata anche l’infruttuosità o l’impraticabilità di modifiche delle attrezzature aziendali, dei turni o della distribuzione delle mansioni, aventi un costo non sproporzionato”; in senso conforme Tribunale di Ivrea, est. Fadda, 24 febbraio 2016 che afferma che l’azienda “avrebbe potuto o modificare la postazione lavorativa con una minima spesa oppure adibirla a mansioni differenti compatibili con il suo stato di salute, ma non certo recedere dal rapporto di lavoro.