Lo stress causato dal lavoro è un fenomeno diffuso, che coinvolge spesso categorie esposte anche a rischio discriminazioni. I fatti accaduti alla dipendente Ikea sono emblematici e non sono passati inosservati alle cronache nazionali. Domanda: esistono dei principi di tutela?
Stress e discriminazioni. Quando il lavoratore è più a rischio.
di Annalisa Rosiello* e Monica Serra**
Lo stress generato dal lavoro è un fenomeno diffuso, che investe maggiormente le categorie più a rischio salute e, nello stesso tempo, a rischio discriminazioni.
Si pensi al recente caso della dipendente Ikea, licenziata perché l’organizzazione non ha “compreso” le sue esigenze di conciliazione casa-lavoro e persino la sua condizione di caregiver. Secondo quanto emerso dalle cronache, a questa lavoratrice, separata dal marito, l’azienda aveva da ultimo negato l’ingresso in orario compatibile con la necessità di accompagnare i figli a scuola e di occuparsi anche del figlio disabile in legge 104. Cosicché – nell’impossibilità di arrivare per tempo – la lavoratrice sarebbe entrata in azienda per diversi giorni consecutivi, senza rispettare il turno.
Ora, questo è un caso emblematico in cui l’azienda, pur essendo nelle condizioni di adottare misure ragionevoli per venire incontro alla lavoratrice (stiamo parlando di una multinazionale con decine di punti vendita in Italia e migliaia di dipendenti) ha preferito negarle questa possibilità.
Se dovessimo soffermarci sull’aspetto puramente formale, si dovrebbe concludere che, avendo questa lavoratrice “disobbedito” a disposizioni di servizio, il suo licenziamento potrebbe ritenersi giustificato.
Ma per noi la soluzione è decisamente differente.
Oltre alla solidarietà degli altri lavoratori e alla incisiva battaglia sindacale, riteniamo che sul piano giuridico la questione meriti alcune riflessioni più ampie, che di fatto coinvolgono categorie di lavoratori considerati più esposti.
Si evidenzia infatti che sono sempre più frequenti i casi di lavoratori e lavoratrici appartenenti ad aree di rischio “salute” che chiedono tutela legale perché subiscono o si ritengono vittime di atti discriminatori.
Il dovere di tutelare la salute del lavoratore è sancito innanzitutto dall’art. 2087 codice civile che prevede l’obbligo per il datore di lavoro di “adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Inoltre, il TU Salute e sicurezza all’art. 28, stabilisce che prevenzione nei luoghi di lavoro “deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza, ivi compresi quello riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato… e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza…, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi e quelle connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione”.
La prevenzione, quindi, non è destinata a un lavoratore per così dire “neutro”, ma deve riguardare, in misura (più) attenta e peculiare, quei gruppi di lavoratori che, in base a determinate caratteristiche soggettive, sono considerati esposti a rischi particolari, anche con riferimento al rischio psico-sociale.
Come anticipato, i rischi cui sono maggiormente esposte queste categorie di lavoratori sono proprio legati alla loro condizione individuale che, per fattori contingenti e spesso temporanei, necessita di un adeguamento del modo di lavorare, al fine consentire sempre la piena e proficua resa della prestazione lavorativa.
Per questo motivo, l’obbligo di una adeguata prevenzione potrebbe e dovrebbe passare attraverso l’adozione di una serie di interventi organizzativi, tra i quali la modifica di turni di lavoro, l’adeguamento di mansioni, l’intervento su fattori relazionali, il monitoraggio e la supervisione dell’organizzazione nel suo complesso, e così via.
Peraltro è di recente entrato in vigore un Decreto del Ministero del Lavoro (registrato alla Corte dei Conti il 12 ottobre 2017) con il quale si offre la possibilità alle aziende di predisporre, in accordo con il sindacato, misure volte ad agevolare e promuovere la conciliazione tra vita professionale e vita privata attraverso tre differenti tipologie di misure: a) area di intervento sulla genitorialità; b) area di intervento sulla flessibilità organizzativa; c) welfare aziendale.
D’altro canto non prendere in considerazione le peculiarità delle categorie considerate dal legislatore maggiormente a rischio, imponendo loro lo stesso trattamento praticato agli altri lavoratori che versano in condizioni personali e familiari “normali”, potrebbe comportare l’insorgenza di stress e anche sfociare in condotte discriminatorie (marginalizzazione, accanimento disciplinare, ecc.).
Per concludere, tornando al caso specifico, si pensi all’elevato livello di stress accumulato da questa lavoratrice-madre-separata (lo stress legato alla conciliazione è ampiamente riconosciuto anche negli studi clinici e statistici). L’azienda, dal nostro punto di osservazione, non solo non ha tutelato adeguatamente, come è suo preciso obbligo, la salute di questa donna (imponendole turni per lei impossibili), ma l’ha persino licenziata disciplinarmente ponendo in essere un provvedimento, che si auspica venga giudicato discriminatorio per ragioni legate al genere e alla disabilità.