Negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare quotidianamente di gig workers, più precisamente dei c.d riders e di come debbano essere inquadrati e tutelati.
Nell’attesa di un eventuale intervento legislativo, alcuni ciclo-fattorini hanno promosso ricorso, rispettivamente a Milano e Torino, rivendicando la natura subordinata del rapporto di lavoro.
In primo grado l’esito del giudizio è stato in entrambi i fori negativo. Alcuni giorni fa, invece, la Corte di Appello di Torino ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale, stabilendo che i riders debbano considerarsi “lavoratori autonomi”, cui si applicano alcune tutele del lavoro subordinato ex art. 2 Dlgs 81/2015.
Al di là di quello che potrebbe accadere a livello normativo e interpretativo nei prossimi mesi, in Europa e non solo, alcuni tribunali si sono già espressi in modo chiaro su quale sia la forma di inquadramento più corretta per questa categoria di lavoratori.
Pur consapevoli che ogni ordinamento ha le proprie peculiarità e differenze e che non è automatico che quanto stabilito, ad esempio, in Spagna possa valere anche per l’Italia o la Francia, guardare in “casa altrui”, come si dice, non fa mai male, soprattutto per avere una visione più allargata della questione.
Ebbene, ecco che nel novembre 2017, la Corte di Appello di Parigi ha confermato la decisione del Conseil de Prud d’hommes de Paris che aveva stabilito che i fattorini di Deliveroo non potevano considerarsi lavoratori subordinati.
La tesi del Tribunale Francese si basa sulla circostanza per cui l’attività dei riders non si svolge all’interno di un servizio unilateralmente organizzato dal datore di lavoro (c.d Service organisè), ma gli stessi sono liberi di auto-organizzare luoghi e tempi di lavoro.
Tale caratteristica del rapporto è stata valorizzata anche dai Tribunali italiani al fine di sostenere la natura autonoma.
Il pregio dell’ordinamento Francese è quello di aver introdotto una serie di norme nel Code du Travail per quei lavoratori che ricorrono a piattaforme di intermediazione per esercitare loro attività professionale, come il diritto all’associazione sindacale e il diritto di sciopero, oltre a diritti previdenziali.
La decisione Francese avvalora la tesi per cui non servirebbe ricercare la subordinazione per impostare una seria ed efficace base di protezione per questi lavoratori.
In senso favorevole al riconoscimento della natura subordinata del rapporto, si sono, invece, espressi i Giudici Australiani e quelli del Tribunale di Valencia, Spagna.
A novembre 2018 la Fair Work Commission Australiana ha stabilito che il rider, in questo caso di Foodora, non è un “indipendent contractor” e che il suo licenziamento disposto con mail e senza preavviso è illegittimo.
A giugno 2018 il Tribunale di Valencia ha statuito che i riders di Deliveroo devono considerarsi lavoratori subordinati dato che il rapporto di lavoro “si incardina nell’ambito dell’organizzazione e direzione dell’impresa convenuta in giudizio”. Per i giudici spagnoli è Deliveroo che stabilisce il prezzo del servizio e che gestisce le condizioni con il ristorante, i clienti e il rider; quest’ultimo può scegliere quando lavorare, ma nelle fasce orarie indicate dalla piattaforma e si trova letteralmente inserito nell’organizzazione dell’impresa che fa interamente in capo a Deliveroo. In senso contrario si è invece espresso il Tribunale di Madrid.
Sentenze straniere alla mano, è pacifico che non c’è una visione unitaria del fenomeno, tanto che nemmeno i riders stessi hanno una posizione univoca in merito a quale debba essere il loro corretto inquadramento.
La compagine dei ciclo fattorini è, infatti, molto varia, soprattutto se guardiamo al nostro Paese.
I dati Inps dello scorso anno davano atto del fatto che in Italia il numero di gig workers era più alto tra i lavoratori adulti, a conferma del fatto che la distribuzione dei pasti non è un lavoro solo per i giovani.
Uno studio dell’università statale di Milano condotto in questi mesi, ha ad esempio evidenziato – con riguardo alla realtà milanese – che ciclofattorini sono perlopiù giovani stranieri tra i 22 e i 30 anni, che vivono grazie agli introiti delle consegne a domicilio e che avrebbero bisogno di informazione, garanzie e tutele ben precise.
In ogni caso, e a prescindere dalla risoluzione del dilemma qualificatorio, non dobbiamo mai dimenticarci del carattere umano delle attività di gig economy e della necessità di individuare quanto meno un nucleo di diritti fondamentali nei confronti dei c.d gig workers.
In questo senso, a livello locale ci sono già state delle proposte concrete volte ad individuare standard minimi di tutela; basti pensare alla “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano” firmata a Bologna, o alla proposta di legge della Ragione Lazio riguardante le “Norme per la tutela e la sicurezza dei lavoratori digitali”.
A Milano è stato invece aperto uno sportello di informazione e consulenza dedicato ai riders vista anche l’elevata componente straniera che necessità, come detto, di un’assistenza qualificata.
Qui il link all’articolo sul Fatto Quotidiano.