a

Pubblicazioni

Mobbing

18.03.2021 | Pubblicazioni

Pubblicazioni

di Annalisa Rosiello, gennaio 2014

Definizione

Dal punto di vista medico-scientifico, così come sul piano più strettamente giuridico, il fenomeno del mobbing è stato oggetto di numerosi studi ed approfondimenti.

 

Sul tema, di grande interesse ed attualità stante la sempre maggiore diffusione delle patologie lavoro-correlate, sono state presentate svariate proposte legislative ad oggi non concretizzatesi in alcun testo di legge.
Tale perdurante lacuna sul piano normativo contribuisce a creare fraintendimenti nell’attività di individuazione e di qualificazione della fattispecie.
Frequentemente infatti il fenomeno viene confuso con le più “tradizionali” (ma non per questo meno dannose) azioni di dequalificazione o marginalizzazione professionale.
In realtà, perché si possa parlare di mobbing, è necessario che ricorrano condizioni e presupposti particolari, in cui la dequalificazione o la marginalizzazione lavorativa possono essere importanti elementi indicatori di una fattispecie che tuttavia è più articolata e che, come vedremo, è connotata dalla sistematicità e dalla regolarità di attacchi attivi alla persona.

Il mobbing (da “to mob” – assalire tumultuosamente) viene definito dallo psicologo svedese Heinz Leymann – uno dei massimi esperti in materia – come “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili.
Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi).
A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali”.

Le forme che questa azione può assumere vanno dalla dequalificazione dei compiti assegnati alla persona oggetto della persecuzione alla sua emarginazione nell’ambito lavorativo, dalla diffusione di notizie false ed offensive alle quotidiane critiche sul suo operato, per arrivare all’attacco all’immagine sociale nei confronti di colleghi e superiori.
Lo scopo principale del mobbing è, normalmente, quello di spingere una persona ritenuta “scomoda” a dare le dimissioni dall’azienda o a commettere azioni che ne giustifichino il licenziamento (c.d. mobbing strategico).

 

Alla luce delle riforme introdotte dal c.d. Jobs act nel 2014-2015, prevalentemente in tema di disciplina dei licenziamenti (link), di mansioni (link) e di controlli (link) potrebbe verificarsi che il datore di lavoro utilizzi impropriamente le nuove norme per compiere “mobbing generazionale” (qui il termine mobbing è utilizzato in senso lato) ovvero per colpire personale più garantito (che magari fruisce dei permessi ex lege 104, oppure dei permessi legati a genitorialità, o sindacali o politici) per far luogo, una volta portata a termine “l’impresa”, a personale meno garantito (ovvero assunto dopo il 7 marzo 2015). Si pensi ad esempio al caso in cui l’azienda assegni al dipendente mansioni equivalenti sul piano formale, ma nell’ambito di un reparto isolato e sgradito. Benché alla luce delle nuove norme l’assegnazione potrebbe risultare valida, il lavoratore potrebbe segnalare – se presenti – eventuali intenzioni ritorsive, vessatorie o altrimenti punitive che – alla luce dell’art. 15 dello statuto dei lavoratori – renderebbero anche oggi e comunque nullo lo spostamento.

Non sempre risulta altrettanto scontato chi siano i fautori dell’azione di mobbing: infatti, se in buona parte dei casi l’artefice della persecuzione è il datore di lavoro, spesso nelle azioni di mobbing sono coinvolti gli stessi colleghi che, per compiacere il “capo”, si uniscono alla strategia di isolamento e di vessazioni.

Le ricerche condotte ed i casi conclamati sul piano medico-legale e giudiziario hanno dimostrato che il mobbing può portare all’invalidità psico-fisica; in questo senso è corretto inquadrare le patologie da mobbing tra le malattie professionali e, non a caso, l’INAIL riconosce queste patologie (qualora ne risulti dimostrata l’origine professionale) tra quelle che danno diritto al riconoscimento del danno biologico (danno all’integrità psico-fisica della persona).

Nel contesto italiano non esiste, come si accennava, una organica definizione normativa di mobbing.
La nozione di molestie sul lavoro è stata per la prima volta inserita nei decreti legislativi sulle discriminazioni (D.Lgs. 215/2003, D.Lgs. 216/2003, D.Lgs. 198/2006), i quali assimilano alle discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni di razza, etnia, handicap, sesso, ecc, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo.
In base a quei decreti è altresì considerata discriminazione l’ordine di discriminare persone in ragione della razza, dell’origine etnica, dell’handicap, del sesso ecc..

Si tratta di una prima definizione di molestie (o mobbing) sul lavoro, ma essa non può considerarsi esaustiva, dal momento che non sempre il mobbing è inquadrabile nelle condotte discriminatorie contemplate dalle disposizioni richiamate.

Nell’ambito degli studi della psicologia del lavoro presenti nel panorama italiano, la definizione più completa è indubbiamente quella proposta da Harald Ege (psicologo del lavoro esperto di mobbing) che definisce il mobbing “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità.
Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione” (Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffré, 2002, pag. 39).
Tale definizione, accompagnata dai parametri per l’individuazione del mobbing individuati dallo stesso Ege, è quella recepita con maggior frequenza dai Giudici (ed anche dalle proposte legislative parlamentari).

E’ dunque opportuno dare conto dei vari parametri, in totale sette, per l’individuazione del mobbing messi a punto dopo anni di attività e ricerca sul campo dallo stesso Ege. Tali parametri, secondo l’autore, debbono essere tutti presenti affinché si possa parlare di mobbing (salvo i casi di “sasso nello stagno” o di “quick mobbing”).
Vediamo i parametri nel dettaglio.

1) Ambiente lavorativo
Il mobbing deve svolgersi sul posto di lavoro, pur essendo un disagio che potrà poi ripercuotersi nella sfera privata del mobbizzato (in questo caso viene denominato doppio mobbing).

2) Frequenza
Le azioni ostili devono accadere almeno alcune volte al mese (salvo il caso di “sasso nello stagno”).

3) Durata
Il conflitto deve essere in corso da almeno sei mesi, salvo i casi cosiddetti di “quick mobbing” (cioè di frequenza quotidiana quindi particolarmente devastante delle azioni ostili) la cui durata può essere abbassata a tre mesi.

4) Tipologia di azioni
Le azioni devono rientrare in almeno due parametri tra i seguenti:

  • attacchi ai contatti umani: ad es. attraverso critiche e rimproveri ingiustificati, gesti e insinuazioni con significato negativo, minacce, limitazioni delle capacità espressive e della libertà di pensiero;
  • isolamento sistematico: ad es. deliberata negazione di informazioni relative al lavoro o manipolazione delle stesse o divieto per i dipendenti di parlare con il lavoratore o, ancora, collocazione del lavoratore in luogo isolato;
  • cambiamenti delle mansioni: ad es. attribuzione di mansioni dequalificanti, senza senso, umilianti, ecc.;
  • attacchi alla reputazione: ad es. calunnie, offese, abusi, espressioni maliziose, insultanti;
  • violenza e minacce di violenza; ad es. molestie sessuali, minacce di violenza fisica, adibizione a mansioni nocive per la salute, anche in relazione ad eventuali condizioni di invalidità.

5) Dislivello tra gli antagonisti
Nel mobbing i “protagonisti” sono sostanzialmente due: la vittima (o mobbizzato) e l’aggressore (o mobber). Non si tratta però necessariamente di due persone, bensì di due ruoli in conflitto. La vittima è comunque in una posizione costante di inferiorità.

6) Andamento secondo fasi successive
Perché una situazione possa essere definita mobbing, devono essere ben identificabili al suo interno non solo il senso di progresso, ma anche delle fasi successive.
In questo senso il modello Ege prevede una fase preparatoria (condizione zero) e sei fasi successive:

  • fase 1: conflitto mirato;
  • fase 2: inizio del mobbing;
  • fase 3: primi sintomi psico-somatici;
  • fase 4: errori ed abusi dell’Amministrazione del personale;
  • fase 5: serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima;
  • fase 6: esclusione dal mondo del lavoro).

E’ a partire dalla seconda fase che la vittima si “cristallizza” e comincia a percepire disagio e tensione, mentre la vicenda incomincia ad incanalarsi in una direzione ben precisa.

7) Intento persecutorio
Perché si possa parlare di mobbing si deve riscontrare da parte dell’aggressore un chiaro scopo negativo nei confronti della vittima. Nella vicenda cioè devono essere riscontrabili scopo, obiettivo conflittuale e carica emotiva e soggettiva.

Si veda anche la voce Mobbing di genere

Fonti normative – Obblighi di prevenzione

In termini civilistici l’incidenza del mobbing sul contratto di lavoro deriva essenzialmente dalla violazione dell’art. 2087 c.c. (combinata con altre norme a seconda della fattispecie; ad es., in caso di dequalificazione, con l’art. 2103 c.c.; in caso di discriminazioni con le norme antidiscriminatorie; in caso di accanimento disciplinare con le disposizioni dello Statuto e del codice civile che regolamentano il potere disciplinare del datore di lavoro).

L’art. 2087 c.c., da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza l’obbligo contemplato dalla norma non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, implicando altresì il dovere dell’azienda di astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta, si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
E da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento di tal fatta posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa.

Qualora il mobbing possa essere ricondotto ad un fattore discriminante (razza, etnia, sesso, religione, orientamento sessuale, handicap, ecc.) sono richiamabili i D.Lgs. 215/2003, D.Lgs. 216/2003 e D.Lgs. 198/2006, come modificato dal d.lgs 5/2010 che descrivono le molestie morali come quei comportamenti indesiderati posti in essere per i fattori discriminanti sopra esemplificati “aventi lo scopo o (anche semplicemente, ndr) l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante od offensivo”.
In tali casi il lavoratore deve allegare le circostanze indicatrici della discriminazione e delle molestie morali ma è aiutato da un regime di prova agevolato, dato che i decreti sopra menzionati introducono una parziale inversione dell’onere della prova ed inoltre, pacificamente, il lavoratore non è gravato dell’onere di provare l’intentio.
Infine, se alla condotta marginalizzante o mobbizzante è seguito o conseguito uno o più episodi di molestie sessuali, potrà essere invocato il D.Lgs. 198/2006 come modificato dal d.lgs. 5/2010 (v. anche voce Mobbing di genere).

Tra le fonti normative a disciplina della materia – e specificamente in tema di prevenzione del fenomeno – merita infine specifico richiamo la Legge 3 agosto 2007, n° 123 ed il D.Lgs. 9 aprile 2008, n° 81.
Tali disposizioni hanno previsto la valorizzazione di accordi aziendali, territoriali e nazionali nonché, su base volontaria, dei codici di condotta ed etici e delle buone prassi che orientino i comportamenti dei datori di lavoro, anche secondo i principi della responsabilità sociale, dei lavoratori e di tutti i soggetti interessati, al fine del miglioramento dei livelli di tutela definiti legislativamente (Legge 3 agosto 2007, n° 123, art. 1, lett. l).
Inoltre l’oggetto della valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi (D.Lgs. 9 aprile 2008, n° 81 art. 28).
Il mancato rispetto di tale ultima disposizione espone l’azienda a conseguenze sanzionatorie sia civili che penali.

Infine il 9 giugno 2008 è stato firmato dalle parti sociali l’Accordo interconfederale per il recepimento dell’Accordo quadro europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004.
In tale accordo, all’art. 2, si dà atto che anche le molestie e la violenza sul posto di lavoro sono potenziali fattori di stress lavoro-correlato e che verrà verificata nel programma di lavoro del dialogo sociale 2003-2005 la possibilità di negoziare uno specifico accordo su tali temi.

Cosa fare – Tempi

La vittima di mobbing può incorrere in serie difficoltà a livello esistenziale fino ad arrivare a disturbi di adattamento e/o patologie di tipo cronico.
Occorre dunque che la stessa affronti un percorso clinico tramite centri specializzati nelle patologie legate allo stress ed al mobbing e/o tramite figure professionali quali lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psichiatra.

E’ di estrema importanza che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base, pur sintetica (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo (e dunque, ad es.: depressione reattiva a problematiche in ambito lavorativo).

Sul piano legale è importante rivolgersi al sindacato o ad un avvocato giuslavorista specializzato in casi di mobbing.
E’ importante, relativamente ai tempi, affrontare il percorso clinico contestualmente (o antecedentemente) a quello legale.

L’azione risarcitoria si prescrive in dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.).
Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente, sia per prevenire l’aggravarsi dei danni, sia per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.

Documenti necessari

Dal punto di vista documentale, è importante acquisire eventuali lettere di contestazione, mail dal contenuto offensivo, ordini di servizio non attinenti al ruolo e ogni documento che possa essere utile per ricostruire la fattispecie, tenendo conto peraltro del fatto che le prove più importanti, nei caso di mobbing, sono normalmente quelle testimoniali.

Con riguardo alla documentazione medica, molto importanti sono i certificati del medico di base (per attestare la data di inizio dei disturbi), i certificati dei clinici (psicologo, psichiatra, CTS, Clinica del lavoro, ecc.) e la perizia medico-legale sul danno biologico.

A chi rivolgersi

  • Ufficio vertenze sindacale
  • Studio legale specializzato in diritto del lavoro

Richieste sanzionatorie e danni risarcibili

La fattispecie del mobbing si realizza ogni qual volta vi siano le condotte vessatorie con le caratteristiche sopra definite, a prescindere dal verificarsi di conseguenze dannose.

La prima richiesta sanzionatoria riguarda la condanna dell’azienda a cessare la condotta molesta nei riguardi del lavoratore e ad adottare ogni misura atta ad evitare il perpetuarsi della situazione.
E’ tuttavia pressoché la norma che situazioni di mobbing ingenerino danni alla persona oltreché patrimoniali.

Con riguardo ai danni patrimoniali, possono essere esposte le spese mediche affrontate, se in relazione con la situazione di mobbing, nonché – qualora al mobbing consegua la perdita del posto di lavoro per licenziamento o per dimissioni conseguono i relativi danni in base alla legge.
Si precisa che qualora, nel caso di superamento del periodo di comporto, risulti comprovato che le assenze del lavoratore siano derivate dalla situazione di mobbing non si computano ai fini del comporto.

Passando ad esaminare le distinte poste di danno non patrimoniale, la prima voce risarcitoria che viene normalmente richiesta nei casi in esame è il danno esistenziale o danno alla vita sociale, di relazione (rappresenta il “non fare più” o il “non aver fatto” in conseguenza degli illeciti aziendali) che la giurisprudenza considera pacificamente risarcibile in casi di mobbing.
Al riguardo la pronuncia delle SU 11 novembre 2008, n° 26972 enuncia la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua componente di danno alla vita di relazione (o esistenziale) in tutti i casi di lesione di diritti inviolabili di portata costituzionale, quali quelli, espressamente richiamati, di violazione dell’art. 2087 c.c..
Il dovere di protezione stabilito da tale articolo, infatti, è fondato sugli artt. 32, 1, 2, 4 e 35 della Costituzione, che tutelano la salute e la dignità personale del lavoratore. Ed è evidente che in casi di mobbing tali diritti vengono fortemente lesi.

La seconda voce (o sotto-categoria) di danno non patrimoniale di cui si chiede comunemente il ristoro è il danno morale che rappresenta la sofferenza d’animo (il sentire dolore) conseguente agli illeciti aziendali.
Fino ad un certo momento,  la Suprema Corte ha affermato che il risarcimento del danno morale doveva riconoscersi in favore del soggetto danneggiato per lesione del valore della persona umana costituzionalmente garantito, a prescindere dall’accertamento di un reato in suo danno (per tutte Cass. 21 giugno 2006, n° 14302).
Un passaggio della sentenza delle SU del 2008, cit., al contrario, parrebbe ancorarlo al fatto di reato, anche se non appaiono pienamente chiare le intenzioni (“viene in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale”).

Si sottolinea peraltro che in molte ipotesi di disfunzionalità organizzativa è possibile individuare delle ipotesi delittuose ed anche la giurisprudenza penale comincia ad intervenire in maniera significativa per la repressione del mobbing (v. in proposito Cass. Sez. 6° penale, sentenza 21 settembre 2006, n° 31413, riguardante il mobbing di massa della Palazzina Laf dell’Ilva di Taranto e la condanna di undici manager per i reati di violenza privata e frode processuale, con conseguenze risarcitorie nei confronti delle vittime, tutte iscritte al sindacato, ed anche nei confronti del sindacato costituitosi parte civile; v. anche Cass. Pen. 7 ottobre 2015, n° 40320; Cass. Pen. 6 febbraio 2009, n° 26594 che ritengono sussimibili gli atti vessatori, nei casi più gravi, nell’ambito del delitto di maltrattamenti).
Per soddisfare quello che parrebbe dunque il mandato delle SU in tema di danno morale, il lavoratore potrebbe in ogni caso chiedere l’accertamento incidentale di tali ipotesi di reato quale premessa per rivendicare il danno morale.

La terza ed ultima voce che viene esposta in tali casi è il danno biologico ovvero la lesione dell’integrità psicofisica clinicamente accertabile.

Oneri di allegazione e di prova della fattispecie

I tratti caratterizzanti la figura del mobbing, così come delineati dalla Cassazione, sono i seguenti:

  • reiterazione e sistematicità di condotte ostili, ancorché non necessariamente illegittime o illecite
  • intenzionalità della strategia persecutoria.

Il fenomeno, come detto, rimane assorbito dall’art. 2087 c.c. che – come unanimemente si legge nelle pronunce giudiziali – impone al datore un dovere di tutela contro qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona (fisica e morale) del lavoratore; resta quindi riferito alla fattispecie anche l’obbligo di proteggere il lavoratore nel caso di condotte vessatorie integranti il mobbing.
Siamo nell’ambito della responsabilità contrattuale che, in base all’art. 1218 c.c., grava il lavoratore dell’onere di allegare e provare i fatti che integrano la fattispecie costituente inadempimento (violazione di norme di sicurezza specifiche o generiche) nonché, nel caso di mobbing orizzontale, la conoscenza o conoscibilità da parte de datore di lavoro delle condotte persecutorie dei colleghi.

Grava invece sul datore di lavoro, quale debitore in relazione all’obbligo di sicurezza e sempre ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’onere di provare la non imputabilità dell’inadempimento, ovvero di aver garantito, direttamente o tramite fattiva vigilanza e intervento sull’operato dei collaboratori, la protezione legislativamente richiesta ex art. 2087 c.c..

Gli operatori del settore sanno che rendere prova del mobbing è cosa particolarmente ardua per il lavoratore (che, una volta provata la fattispecie, è poi anche gravato della prova dei danni e della causalità, come tra breve si dirà).
Ed infatti, anche se la giurisprudenza più recente sembra ormai escludere la necessità di provare l’elemento psicologico o dolo, ancorandosi allo strumento delle presunzioni, provare i fatti (singoli episodi tra loro concatenati e susseguitisi con una certa frequenza in un dato lasso di tempo) attraverso documenti e testimonianze è attività estremamente complicata anche per la particolare difficoltà – soprattutto in contesti di mobbing – a reperire testimoni in grado di riferire le vessazioni.
I colleghi di lavoro, infatti, sono a volte coinvolti nel mobbing o sono di esso (quasi mai del tutto innocenti) spettatori.

Una volta che il lavoratore abbia assolto tale onere, compete all’azienda fornire la prova dell’esatto adempimento.
Si ricorda al riguardo che l’accezione di salute contenuta nel D.Lgs. 81 del 2008, art. 2, lett. o) è quella dello “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.
Si tratta della nozione di salute così come definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Inoltre, come già enunciato, in base all’art. 28 del TU n° 81 del 9 aprile 2008 è compito del datore di lavoro la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004…”. e in base all’art. 15 TU vengono esplicitate tutte le misure generali di tutela, che passano attraverso la formazione e l’informazione di dipendenti, rappresentanti e capi nonché attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi.

Ignorare l’esistenza del fattori potenzialmente stressogeni, quali quelli creati da un ambiente di lavoro improntato a dinamiche relazionali non corrette, e non effettuare una corretta valutazione, in termini preventivi, di tali fattori implica – per l’azienda – esporsi oggi a molto probabili conseguenze risarcitorie anche pesanti.
Sul punto anche la giurisprudenza prevalente conviene che non è assolutamente sufficiente ad escludere la responsabilità datoriale l’allegazione e la prova di avere svolto un intervento “pacificatore” non seguito da concrete misure e da adeguata vigilanza (per tutte v. Cass. 11 settembre 2008. n° 22858.).

E neppure assolve l’onere probatorio in tal senso l’azienda che si limiti ad allegare di aver deferito al collegio dei probiviri l’autore dei fatti di mobbing (Cass. 25 maggio 2006, n° 12445.). Infatti – anche a causa del noto dilagare del fenomeno di cui ormai si parla da anni e delle tristemente note conseguenze che esso può comportare – assolve al dovere di protezione ex art. 2087 c.c., in tale ambito, il datore di lavoro che utilizza in pieno (e prova di aver utilizzato) tutti gli strumenti normativi, contrattuali o le conoscenze organizzative utili a evitare l’insorgere del fenomeno.
L’istituzione, ad esempio, di commissioni di clima, l’effettuazione di indagini di clima, l’istituzione del fiduciario di azienda, l’effettuazione di corsi di formazione specifici sulle relazioni interpersonali nei luoghi di lavoro, la costante comunicazione aziendale in merito all’importanza di un clima corretto e cordiale, l’istituzione di procedure di “denuncia interna” ecc., sono tutti strumenti preventivi che se adottati in “tempi non sospetti” possono costituire elementi indicatori validi ad escludere o, almeno, a limitare la responsabilità datoriale.
In assenza di tali o simili accorgimenti l’azienda resta oggi esposta alle conseguenze risarcitorie di cui ora si dirà.

Resta fermo quanto già più su precisato in termini di “alleggerimento” degli oneri probatori qualora il mobbing possa essere ricondotto a discriminazioni o ritorsioni.

Oneri di allegazione e di prova dei danni

Con riguardo alla allegazione ed alla prova dei danni, merita richiamo l’orientamento della Suprema Corte a Sezioni riunite.

La sentenza delle SU, 11 novembre 2008 n° 26972 ha ribadito quelli che, in ambito giuslavoristico, sono i principi di una precedente sentenza delle Sezioni Unite, la n° 6572 del 14 marzo 2006, espressamente richiamata dalla pronuncia in commento: il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, deve essere allegato e provato con documenti, testimonianze ed anche ricorrendo alle presunzioni.

La sentenza 6572/2006, cit., poneva a carico del lavoratore l’allegazione e la prova “di aver compiuto scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso” e, con riguardo al danno morale, l’allegazione e la prova del turbamento d’animo, del dolore intimo e dimostri tali circostanze “attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale mette a sua disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro” ammettendo anche il ricorso alle presunzioni.

La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza 6572/06 non aveva dato peraltro eccessivo credito a tale rigida impostazione; si fa riferimento ad altre sentenze della Cassazione (per tutte Cass. 22 settembre 2006) che attribuiscono, ad esempio, alla durata del demansionamento ed all’ampiezza del dislivello tra le mansioni precedentemente svolte e quelle successivamente assegnate valore presuntivo sufficiente per la determinazione equitativa del danno, a prescindere dalla specifica allegazione dello stesso.

Peraltro giova ricordare che le stesse Sezioni Unite avevano affermato che l’esistenza del danno da demansionamento nella sua componente esistenziale e morale potesse fondarsi su di un giudizio probabilistico, a prescindere da una specifica allegazione e prova dello stesso.
Si fa riferimento a Cass. S.U. 17 luglio 2008 n° 19596, che afferma che l’espressione “automatico degrado” (utilizzata nella sentenza impugnata) vada interpretata nel contesto della motivazione, come sinonimo di conseguenza ad alto grado di probabilità, il che è sufficiente per istituire la deduzione presuntiva.

Si può dunque presumere, a seguito della prolungata e ingiustificata emarginazione, che i comportamenti tenuti dal datore di lavoro abbiano leso il diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità sul luogo di lavoro (art. 1, 2 cost.) e comportato un automatico degrado della professionalità da lui acquisita in trenta anni con conseguenti riflessi sulla sua vita sociale e di relazione.

A prescindere dai contrasti della giurisprudenza di cui si è dato conto, nel caso di richiesta del risarcimento del danno esistenziale e del danno morale il lavoratore potrebbe sottoporsi ad una perizia redatta secondo il metodo “LIPT Ege” o metodi analoghi, quali ad esempio il metodo NAQ perizia costituente senz’altro prova documentale e strumento utile per la migliore valutazione di tali poste di danno.
Infatti, inserire nel ricorso il riferimento a esperienze esistenziali e di sofferenza morale attingendo alle risultanze testali dovrebbe senz’altro “accontentare” anche il giudice più esigente.
Inoltre il lavoratore potrebbe richiedere che in sede di Consulenza Tecnica d’ufficio venga valutata la sussistenza non solo del danno biologico, ma anche del danno esistenziale e morale, e che il CTU esprima un giudizio di compatibilità tra le condotte denunciate e la presenza di tutti i pregiudizi non patrimoniali, non soltanto di quello in ambito biologico.

Del resto già in diversi casi i giudici hanno demandato alla CTU la determinazione della sussistenza del danno esistenziale e del danno morale in casi di mobbing e di straining (Tribunali di Forlì, Bergamo e Sondrio, v. sent. pubblicate nel sito www.mobbing-prima.it).
In tal modo si può evitare di praticare (il che è richiesto dalle SU in commento) l’automatismo quantificatorio utilizzato specialmente per la liquidazione del danno morale (normalmente quantificato da un terzo alla metà).

Con riguardo alla terza posta risarcitoria, costituita dal danno biologico, la sentenza SU 11 novembre 2008, cit., afferma che è normalmente richiesto l’accertamento medico-legale, anche se tale strumento (CTU) non è esclusivo e necessario, potendo il giudice porre a fondamento della sua decisione tutti gli elementi acquisiti nel processo (documenti e testimonianze) nonché avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Contributi scientifici

Su segnalazione dell’ISPESL, Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro, ci pervengono i seguenti contributi scientifici:

Uno strumento valutativo del rischio mobbing nei contesti organizzativi: la scala “VAL.MOB.”
di Antonio Aiello (1)Patrizia Deitinger (2)Christian Nardella (2)Michela Bonafede (2)
(1) Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Psicologia, Cagliari
(2) Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro (ISPESL), Dipartimento Medicina del Lavoro, Roma

Condividi questo articolo