di Annalisa Rosiello e Orsola Razzolini, maggio 2011
Premessa
In linea generale, secondo una consolidata dottrina e giurisprudenza, i limiti al licenziamento del dirigente trovano la propria fonte nella contrattazione collettiva di diritto comune.
A partire dagli anni settanta si è affiancato al regime legale (c.d. recesso incondizionato), regolato dagli artt. 2118 e 2119 cod. civ., un regime convenzionale (cd. recesso causale), fondato sulla necessaria “giustificatezza” del negozio risolutivo e sulla previsione di una penale risarcitoria in caso contrario.
Ed infatti i contratti collettivi che regolamentano il rapporto dirigenziale prevedono comunemente che “nel caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima è tenuta a specificarne contestualmente la motivazione”, consentendo l’impugnazione del licenziamento da parte del dirigente nell’ipotesi in cui quest’ultimo ritenga la motivazione addotta dall’azienda “non giustificata” e sanciscono il diritto del dirigente ad ottenere un’indennità supplementare nel caso di licenziamento “ingiustificato” (la disciplina richiamata a titolo esemplificativo è tratta dal CCNL dirigenti aziende produttrici di beni e servizi).
Nell’interpretare la normativa contrattuale collettiva di riferimento, occorre poi rispettare i principi sanciti dagli artt. 1362 e seguenti cod. civ. che individuano una serie di criteri ermeneutici ordinati gerarchicamente: in particolare, il criterio letterale, in via prioritaria e, in via sussidiaria (oltre che il criterio del comportamento effettivo delle parti posteriore alla conclusione del contratto), il criterio della buona fede (art. 1366 cod. civ).
Sull’argomento v. più diffusamente Spalazzi, Il licenziamento del dirigete. Cause di giustificazione, in Pianeta Lavoro e Tributi, 2010, n° 9, pag. 81.
Il licenziamento discriminatorio del dirigente per ragioni di età
Il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro dirigenziale trova, invece, un limite invalicabile nel divieto di licenziamento discriminatorio, di cui all’art. 3, L. n. 108 del 1990 e art. 15 Stat. Lav., che deve essere considerato nullo, con applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 Stat. Lav., a prescindere dalla dimensione occupazionale dell’azienda..
Fra le cause discriminatorie, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, sono oggi comprese anche quelle connesse all’età.
In particolare, il licenziamento del dirigente per ragioni d’età costituisce un atto che rientra nel novero degli atti, comportamenti, prassi vietate dalla tutela antidiscriminatoria di matrice comunitaria (v. c. App. Milano, 27 dicembre 2010, n. 1070).
In proposito, si deve ricordare che il nuovo diritto antidiscriminatorio, modificato dalle direttive 2000/43/CE, 2000/78/CE e 2002/73/CE, attuate dai d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003 (cfr. in particolare l’art. 4, comma 1), innova profondamente la nozione di licenziamento discriminatorio, di cui all’art. 15 Stat. Lav., che risulta così sensibilmente ampliata sino a ricomprendere, appunto, il licenziamento motivato da una discriminazione (diretta o diretta) per ragioni connesse all’età del lavoratore.
L’importanza del principio di diritto comunitario (recepito nella nostra legislazione) è confermato anche dalla giurisprudenza comunitaria (v. sentenza “Mangold” CGCE, 22 novembre 2005, causa C-144/04, in RIDL, 2006, II, p. 250, con nota di Bonardi).
Segnatamente, la Corte di Giustizia respinge l’idea dell’esistenza di un ordine gerarchico fra le ragioni di discriminazione vietate sottolineando che la discriminazione per ragioni d’età è intollerabile tanto quanto la discriminazione per ragioni di sesso e via dicendo.
Innovando alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Corte di Giustizia nel caso richiamato afferma che “il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario” così sancendo una volta per tutte l’obbligo degli Stati Membri di verificare la compatibilità ed, eventualmente, disapplicare la normativa nazionale, anche di fonte contrattuale collettiva, che risulti in contrasto con il principio di diritto comunitario.
Il giudizio di compatibilità imposto dalla sentenza Mangold investe, restando sul solo tema del licenziamento individuale, norme quali l’art. 4, comma 2, l. n. 108 del 1990, l’art. 22, comma 6, CCNL applicabile, non meno che l’art. 3 comma 4 del D.Lgs. 216/2003 laddove, in attuazione dell’art. 6 della citata Direttiva, fa salve le disposizioni “che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati (…) ai lavoratori anziani (…) dettati (…) dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale”.
Un’interpretazione della normativa nazionale conforme al diritto dell’Unione Europea e alla giurisprudenza comunitaria sopra richiamata induce a ritenere che debba ritenersi radicalmente vietato, perché discriminatorio, il licenziamento di un lavoratore, quale che sia la sua categoria di appartenenza, motivato da ragioni connesse all’età, così come deve ritenersi radicalmente vietata, perché discriminatoria, una prassi aziendale volta ad indurre/costringere i dirigenti ad accedere al prepensionamento, al fine di sfrondare la classe dirigenziale e ridurre i costi aziendali.
D’altra parte, proprio con riferimento alla categoria dirigenziale, questo principio è stato di recente ribadito dalla Corte d’Appello di Milano sopra richiamata, in relazione al licenziamento di una dirigente adottato per raggiungimento dei limiti di età (60 anni per le donne). Nel caso di specie, la Corte d’Appello afferma che in seguito all’ingresso nel nostro ordinamento del principio di matrice comunitaria, di non discriminazione (diretta e indiretta) per ragioni connesse anche all’età, la tutela antidiscriminatoria e, in particolare, il divieto di licenziamento per tali motivi, deve trovare applicazione anche con riferimento al rapporto di lavoro dirigenziale (Cass., 25 luglio 2008, n. 20500).
Ora, il caso deciso dalla Corte Ambrosiana riguarda la controversa e specifica questione della licenziabilità o meno delle donne al compimento dell’età pensionabile, inferiore rispetto a quella prevista per gli uomini.
Va da sé che il principio affermato ha, tuttavia, una portata più generale e che, allo stato attuale, non si può dubitare che abbia natura discriminatoria e, a fortiori, decisamente arbitraria il licenziamento intimato al dirigente per ragioni connesse all’età avanzata, ai sensi, prima di tutto, degli artt. 2 e 4, comma 1, d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, che vieta qualsiasi discriminazione diretta e indiretta a causa “dell’età”.
Occorre poi ricordare che, come ribadito assai di recente dalla Suprema Corte, anche in base alla giurisprudenza comunitaria, deve essere accolta una concezione funzionale dell’illecito discriminatorio, in virtù della quale ciò che conta è unicamente “l’effetto pregiudizievole che discende da atti e comportamenti che, prescindendo dalla motivazione addotta, come anche dall’intenzione di chi adotta, pongano il destinatario in una posizione di svantaggio rispetto a quanti siano estranei ai fattori di rischio vietato”.
In tal senso fra le più recenti la sentenza di Cassazione, 16 febbraio 2011, n. 3821 e la più risalente sentenza di Cassasione, 5 febbraio 1998, n. 1197 che, con riferimento al rapporto di lavoro dirigenziale, afferma che i dirigenti e, in generale, gli iscritti all’assicurazione obbligatoria per la vecchiaia che non abbiano raggiunto la massima anzianità contributiva, hanno diritto ad optare per la prosecuzione del rapporto e che, in presenza dell’opzione, il licenziamento intimato sarebbe evidentemente contra legem e quindi nullo, ex art. 1418 cod. civ..
Gli effetti del licenziamento discriminatorio e il regime probatorio
Infine, è appena il caso di sottolineare che, in caso di licenziamento discriminatorio, il dirigente ha diritto alla tutela reale e, a fortiori, alla tutela obbligatoria, qualora non domandi l’applicazione della tutela reale, ma solo della tutela obbligatoria di carattere risarcitorio di cui all’art. 19 del citato CCNL. Ciò è accaduto proprio nel caso deciso da App. Milano, 27 dicembre 2010, n. 1070 ove, infatti, solo per obiter dicta si ammette l’applicabilità dell’art. 18 Stat. Lav. nell’ipotesi del licenziamento del dirigente di natura discriminatoria.
Si sottolinea infine che particolare rilievo dovrà essere attribuito alla prova per presunzioni, ai sensi dell’art. 4, comma 4, d.lgs. n. 216 del 2003, in base al quale “il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti che il giudice valuta ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile”.
È appena il caso di ricordare ancora una volta come l’adozione di una concezione funzionale di illecito discriminatorio consenta di prescindere dalla dimostrazione dell’intento psicologico perseguito dall’azienda (cioè dai suoi direttori). Ciò che conta è la dimostrazione della obiettiva idoneità dell’atto, comportamento, prassi a porre in una condizione di svantaggio i soggetti considerati, per ragioni d’età, considerate discriminatorie, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 216 del 2003.
In pianeta Lavoro e Tributi, maggio 2011