Quando si parla di mobbing normalmente si fa riferimento a una situazione di accanimento e persecuzione che riguarda principalmente una persona e non già a una situazione generalizzata.
Il mobbing, nell’accezione e definizione più comune (mutuata dalla scienza clinica e recepita anche da gran parte della giurisprudenza) è “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili”.
Quindi rientrerebbe nella suddetta nozione l’accanimento verso una persona, ma non, per esempio, quello verso tutti i collaboratori di un reparto o di un ufficio. Portando alle estreme conseguenze questo assunto si arriverebbe a una situazione paradossale per cui porterebbero essere legittimate tutte quelle condotte aggressive, scurrili, contrarie al senso etico che alcuni capi o colleghi tengono nei luoghi di lavoro. Ma è proprio così?
Una recente sentenza della Cassazione sezione lavoro
In effetti questo paradosso parrebbe confermato da una recente sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro (n. 2012 del 26 gennaio 2017) nella quale la Corte ha esaminato il caso di un lavoratore posto a capo di un reparto “che aveva un brutto carattere, che alzava ordinariamente la voce e che aveva un atteggiamento aggressivo nei confronti di tutto il personale”.
Nella sentenza si legge che dall’istruttoria svolta nelle fasi di merito era risultato un “unamine giudizio positivo sulle capacità professionali e, soprattutto, organizzative” del responsabile sia da parte dei suoi diretti superiori che da parte dei colleghi e dei sottoposti “che avevano riconosciuto nello stesso alto senso di responsabilità e disponibilità a svolgere, in caso di emergenza, anche attività che non erano di sua competenza”.
Ebbene, a dire della Corte l’atteggiamento del capo, seppur severo e autoritario, non poteva essere indice di un intento persecutorio, ma era il modo della persona di esercitare le prerogative di superiore gerarchico, con la finalità di “scongiurare disservizi e garantire l’efficienza del reparto”. Quindi alla vittima nessun risarcimento.
Letta così, la sentenza sembra dire che vengono prima le ragioni dell’efficienza e poi i diritti delle persone che lavorano di operare in un clima corretto e rispettoso della loro dignità.
Altri precedenti giurisprudenziali in tema di mobbing “collettivo” (di diverso segno).
Vedremo tra poco che questa conclusione non è affatto condivisibile; e ciò, soprattutto, alla luce della normativa, della contrattazione e della prassi in tema di salute e sicurezza, di stress lavoro-correlato, di benessere organizzativo, di molestie a sfondo discriminatorio o ritorsivo ecc..
Prima di tutto però occorre ricordare che esistono svariati precedenti giurisprudenziali di segno diametralmente opposto a quello espresso dalla sentenza della Cassazione sopra richiamata.
Ad esempio una sentenza della Corte d’Appello di Milano (sent. n° 131 del 16 febbraio 2009, rel. Curcio) ha riformato la sentenza di primo grado che escludeva il mobbing perché vi era “una generale atmosfera di tensione dell’ambiente di lavoro” che non riguardava solo la ricorrente “ma la generalità dei dipendenti e che le condotte definite ostili costituivano in realtà rimproveri e lagnanze fatti a tutto il personale e in particolare alla ricorrente per la scarsa diligenza mostrata nell’espletamento delle sue mansioni”. La Corte d’appello ha invece ritenuto che non si fosse trattato di mere difficoltà ambientali ma di “comportamenti ostili e ingiuriosi riservati ai dipendenti, non tutti capaci o disposti ad accettarli senza disagi psicologici”. Per la contrarietà di tali condotte ai principi etici, ai diritti inviolabili della persona, di rango costituzionale e all’art. 2087 c.c. è stato dunque riconosciuto un danno non patrimoniale alla vittima di simili atteggiamenti.
Altro caso eclatante di mobbing “collettivo” è quello verificatosi all’Ilva di Taranto nei confronti di 60 lavoratori “confinati” per parecchi mesi in una palazzina definita “lager” senza alcuna mansione; ciò con l’intento di muoverli, attraverso questa ignobile e illecita modalità, ad accettare differenti condizioni contrattuali; tale situazione provocava in molti di loro pesanti conseguenze sul piano psichico. Sulla vicenda è intervenuta la Cassazione, sezione 6° penale (21 settembre 2006, n. 31413) condannando i responsabili del fatto, tra gli altri, per il reato di violenza privata.
Uno studio sul mobbing collettivo
In uno studio ripreso anche di recente, pubblicato nel 2015 dalla rivista americana Quarz state raccolte e analizzate le indagini svolte dall’American Phsycology Association, dalla Harvard Business School e dalla Stanford University in tema di disagio lavorativo.
Con l’efficace titolo “What’s worse for you-your boss, or smoking a pack a day?”, il contributo afferma che un capo cattivo può essere per i propri dipendenti altrettanto dannoso del fumo passivo. Più a lungo si rimane a lavorare per qualcuno che adotta comportamenti che inducono uno stato di stress nel lavoratore, maggiore è il danno alla sua salute fisica e mentale.
L’articolo, quindi, non muove da un caso di mobbing, ma dallo studio degli effetti che un ambiente lavorativo complessivamente ostile e dannoso può avere sui lavoratori, dove per ambiente lavorativo dannoso – nello specifico – si intende un “capo cattivo” nei confronti della generalità dei lavoratori.
Le fonti normative, contrattuali, i codici etici.
I passi avanti compiuti negli ultimi decenni dalla legislazione per tutelare la dignità della persona nei suoi diritti fondamantali, a beneficio – peraltro – anche dell’organizzazione e della collettività tutta, sono molteplici.
Benché l’art. 2087 c.c. resti il baluardo fondamentale, il TU 81/2008 (art. 28) ha introdotto uno specifico obbligo di valutazione del rischio stress lavoro-correlato, da effettuarsi con indagini di clima mirate. La legislazione antidiscriminatoria tutta (d.lgs. 215 e 216 del 2003 e d.lgs. 198/ 2006) contiene delle definizioni di molestie morali a sfondo discriminatorio molto simili a quella di mobbing. Una normativa specifica è intervenuta anche nel pubblico impiego con la nota direttiva 24 marzo 2004 in tema di “miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni” e con l’istituzione dei Cug (Comitati unici di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni) definiti dall’art. 21 della l. n° 183/2010.
Molteplici sono poi i contratti collettivi (nazionali e aziendali) e i codici etici che mirano a contrastare pratiche discriminatorie e di mobbing nonché a istituire un clima relazionale e lavorativo corretto all’interno dei luoghi di lavoro.
Conclusioni
Tutto questo non può prescindere – anzi spesso passa proprio – da un’adeguata formazione dei lavoratori, soprattutto dei lavoratori con ruoli direttivi: i “capi maleducati” o cambiano (svolgendo se del caso specifici percorsi formativi) o – evidentemente – non possono essere considerati adatti a ricoprire quel ruolo.
La preparazione di un capo, infatti, non si misura solo nel grado di mantenimento del “l’efficienza del reparto” ma anche e soprattutto nella corretta gestione della leadership e, più in generale, delle relazioni nel luogo di lavoro, che poi è uno dei principali luoghi della vita.
Questo articolo è pubblicato nella rivista Pianeta Lavoro e Tributi – Teleconsul – scarica qui il pdf