di Chiara Vannoni, settembre 2015
L’entrata in vigore del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, relativo al c.d. “contratto a tutele crescenti” non è novità recente, ma di sicuro il dibattito intorno ai contenuti del provvedimento è solo all’inizio.
E’ di immediata comprensione che le nuove disposizioni – che come ben sappiamo non riguardano i “contratti”, bensì i “licenziamenti” – rappresentano il definitivo e silenzioso superamento non solo della tanto criticata Legge Fornero che pure era intervenuta sul punto, ma soprattutto dell’architrave dei diritti dei lavoratori, cioè l’art. 18 della Legge 300/1970.
Ovviamente, senza entrare nel merito politico né nell’annosa polemica relativa ai “licenziamenti facili”, noi addetti ai lavori non possiamo fare altro che prendere atto della nuova situazione normativa e cercare di comprenderne subito i punti più critici.
“Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto”: così recita l’art. 1 del citato Decreto Legislativo 23/2015, che delimita il proprio campo di applicazione.
Tutti i lavoratori assunti da aziende che hanno alle loro dipendenze i “canonici” 15 dipendenti, o che li raggiungano e superino successivamente all’entrata in vigore del decreto in questione, quindi, non potranno più richiedere “l’art. 18”, e di fatto la reintegrazione nel posto di lavoro è fortemente circoscritta.
Pressoché invariata la tutela (reintegratoria) nelle ipotesi di recesso discriminatorio: la formulazione già contenuta nella Legge Fornero è stata soggetta a una riscrittura, che non dovrebbe però intaccare il senso e che soprattutto consente ancora al lavoratore di richiedere (e, si spera, ottenere) la piena tutela reale.
Le vere novità sono invece contenute nell’art. 3, che disciplina le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo e per giusta causa.
Tralasciando le questioni legate alle “tutele crescenti” (la famosa moltiplicazione che trasformerà il Giudice in mero ragioniere del calcolo di una indennità), l’attenzione è da porsi rispetto a quanto previsto per i casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
In particolare, il secondo comma dell’art. 3 stabilisce che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’ insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’ indennità risarcitoria…”.