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I “ragionevoli accomodamenti” e il divieto di discriminazione per disabilità. Alessandra Maino e Monica Serra, Ottobre 2016

19.03.2021 | Pubblicazioni

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Alessandra Maino e Monica Serra, ottobre 2016

Il nostro contributo prende spunto da una ormai nota ordinanza Tribunale di Pisa del 16 aprile 2015 (Tarquini est.). Questa pronuncia ha ravvisato la discriminatorietà e quindi la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice divenuta fisicamente inidonea allo svolgimento delle mansioni cui era adibita, nullità dichiarata poiché il datore di lavoro non aveva adottato i ragionevoli accomodamenti previsti dalla legge. Sempre questa pronuncia ha disposto la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale da discriminazione.

Si tratta di una tra le prime occasioni in cui le regole contro le discriminazioni basate sull’handicap stabilite dalla Dir. n. 2000/78 hanno ricevuto applicazione nel nostro Paese nei termini intensamente protettivi indicati dalla Corte di Giustizia.

Sul tema dei ragionevoli accomodamenti si ricorda che è intervenuta, nel 2013, una modifica legislativa che ha inciso sul testo del d.lgs. 9 luglio 2003, n° 216 ed ha introdotto nell’art. 3 un nuovo comma, il 3bis. Questa modifica si è resa necessaria a seguito di una sentenza della Corte di Giustizia Europea, che ha condannato l’Italia proprio per il mancato recepimento della direttiva nella parte in cui prevede l’obbligo degli accomodamenti ragionevoli (Commissione Europea contro Repubblica Italiana,  Causa C-312/11).

Al fine di comprendere appieno l’importanza di queste novità legislative e interpretative e quali cambiamenti si possano verificare nella gestione dei rapporti di lavoro ci dobbiamo soffermare proprio su due nozioni fondamentali di diritto antidiscriminatorio: quella di “persona con disabilità” e quella di “ragionevole accomodamento del posto di lavoro”. Entrambe queste nozioni vengono lette ed esposte alla luce della giurisprudenza comunitaria che, con particolare riferimento alla questione della disabilità, ha potuto crescere ed evolvere nel corso di pochi anni anche sulla scorta dei principi stabiliti nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia nel 2009).

La nozione di persona con disabilità

La Direttiva 200/78/CE del 27 novembre 2000 (e conseguentemente la normativa italiana di trasposizione), pur delineando un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, non fornisce una definizione di handicap.

Occorre quindi fare riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità intervenuta nel 2006, che definisce espressamente all’art. 1 le persone con disabilità come “…coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri”.

L’elemento fondante della disabilità non è dunque la condizione soggettiva della persona, vincolata necessariamente da valutazioni mediche, ma l’interazione tra persona e ambiente, come affermato anche dalla CGCE (sentenza 11 aprile 2013, nelle cause riunite C‑335/11 e C‑337/11 HK Danmark, punto 47): “…la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata. La natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione.

Secondo la Corte di Giustizia, quindi, la nozione di handicap non si riferisce solo all’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma anche a un ostacolo allo svolgimento di tale attività.

La nozione di “adattamento ragionevole” del posto di lavoro

L’art. 27 della stessa Convenzione ONU prosegue affermando che: “Gli Stati Parti riconoscono il diritto delle persone con disabilità al lavoro, su base di parità con gli altri; ciò include il diritto all’opportunità di mantenersi attraverso il lavoro che esse scelgono o accettano liberamente in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, incluso per coloro che hanno acquisito una disabilità durante il proprio lavoro, prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – in particolare al fine di (…) assicurare che accomodamenti ragionevole siano forniti alle persone con disabilità nei luoghi di lavoro”

La Convenzione fa dunque riferimento ad una nozione ampia di accomodamento ragionevole che non si esaurisce con il pur pregevole sistema di aiuti, incentivi e supporti pubblici, ma richiede l’assolvimento da parte di tutti i datori di lavoro di obblighi volti all’adozione di provvedimenti efficaci in relazione alle situazioni concrete, al fine della conservazione del posto di lavoro e della piena inclusione professionale delle persone con disabilità.

Alla luce delle fonti superprimarie (Convenzione ONU e Direttiva EU, poi completamente recepita con il comma 3bis dell’art. 3, D.Lgs. 216/2003 già richiamato), sul datore di lavoro grava l’obbligo di adottare provvedimenti appropriati per consentire ai disabili o meglio ai lavoratori portatori di handicap di superare il loro specifico impedimento e quindi di accedere ad un lavoro o di conservarlo; tali provvedimenti comprendono non solo interventi di carattere tecnico-materiale, come il riallestimento della postazione di lavoro e la sostituzione delle attrezzature, ma anche interventi di carattere organizzativo, come la redistribuzione delle mansioni, la riduzione o rimodulazione dell’orario di lavoro, o il cambiamento dei turni. Ad esempio, la ricerca di mansioni diverse, equivalenti o inferiori, deve essere considerato uno dei possibili accomodamenti ragionevoli e tale conclusione, già esplicitata dall’art. 42, D.Lgs. 81/2008, deve ritenersi oggi ulteriormente rafforzata alla luce della previsione contenuta nell’art. 2103, comma 5, cod.civ., che prevede la modifica delle mansioni “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione o al miglioramento delle condizioni di vita”.

L’eccessiva sproporzione è, invece, il solo limite entro cui contenere i possibili adattamenti organizzativi, per il resto da considerare tutti potenzialmente fattibili; sproporzione che andrà valutata, caso per caso, con riferimento alle dimensioni e alle disponibilità finanziarie di un’impresa.

Il rifiuto dell’adozione di ragionevoli accomodamenti come forma di discriminazione specifica

La pronuncia del Tribunale di Pisa richiamata in premessa afferma che il rifiuto di adattamento ragionevole o il licenziamento operato in assenza dello stesso debbano qualificarsi rispettivamente come comportamento e licenziamento discriminatorio.

In particolare, sostiene il Tribunale, che la mancata adozione di una soluzione organizzativa senza costo per l’azienda “costituisce violazione del generale principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap posto dalla direttiva 2000/78 e nell’ordinamento interno dal D.Lgs. 216/2003 senza che, come già detto, rilevi in alcun modo l’esistenza o la prova di un intento soggettivo della società di discriminare la ricorrente, il divieto di discriminazione operando obiettivamente” .

La giurisprudenza in tema di discriminatorietà si è lungamente ancorata ad una interpretazione che assimila il licenziamento discriminatorio a quello per motivo illecito determinante, sancendo l’illegittimità del recesso solo nei casi in cui venisse accertato che il motivo discriminatorio fosse esclusivo e determinante ed escludendo la discriminatorietà del recesso in presenza di un’altra causa di illegittimità.

Questa impostazione deve in realtà essere oggi disattesa sia in ragione del corretto inquadramento della fattispecie “persona con disabilità / ragionevole accomodamento, nell’ambito sopra tracciato di ordinamento sovranazionale e giurisprudenza comunitaria, sia sulla base di quanto stabilito recentemente dalla Corte di Cassazione. Con la sentenza 5 aprile 2016, n. 6575, la Corte ha, infatti, affermato che “…la nullità derivante dal divieto di discriminazione discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, senza passare attraverso la mediazione dell’art. 1345 c.c.”

Sotto il profilo del diritto europeo la discriminazione diretta fondata sulla disabilità è di per sé vietata, pertanto anche se la sentenza appena citata si è espressa in un caso di discriminazione di genere, nondimeno si ritiene che il principio espresso sia utilmente spendibile anche nei casi di discriminazione per handicap.

In senso analogo alla ordinanza del Tribunale di Pisa, sul tema dei ragionevoli accomodamenti si segnalano anche: Tribunale di Bologna (Marchesini est., ordinanza 30 ottobre 2013) e Tribunale di Ivrea (Fadda est. ordinanza 24 febbraio 2016).

Conclusioni

Abbiamo detto che un lavoratore disabile non può essere licenziato se non dopo che il datore di lavoro, onde evitare il recesso stesso, abbia provveduto a disporre ogni possibile modifica aziendale, da intendersi in senso assai ampio, con il solo limite degli eccessivi oneri economici.

Ci si è interrogati allora su quale sia la via per imputare, nel concreto, al datore di lavoro di non aver adottato ragionevoli accomodamenti e di aver assunto una condotta discriminatoria ad esempio nel caso di un licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione.

In primo luogo – sulla scorta delle pronunce e delle interpretazioni richiamate – occorre appurare se vi siano tutti i presupposti per considerare il lavoratore licenziato come persona affetta da disabilità, secondo le citate norme comunitarie.

Solo in questo caso, si potrà poi verificare se il datore di lavoro abbia adottato o meno accomodamenti ragionevoli: inevitabilmente, in casi del genere, al giudice sarà permesso non solo di constatare se il datore abbia ottemperato o meno all’obbligo di legge, ma anche di sindacare nel merito quantomeno la onerosità economica delle varie opzioni relative agli adattamenti tecnico-organizzativi possibili a detti fini, essendo il costo eccessivo l’unica esimente legale.

Una volta riscontrati tali aspetti, ai sensi dell’art. 18 comma 1, L.  300/1970  si potrà richiedere l’accertamento della discriminatorietà e della nullità del provvedimento discriminatorio, con rimozione delle condotte discriminatorie (reintegrazione e adibizione a mansioni compatibili con stato di salute) e richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla condotta discriminatoria, come prevede la tutta la normativa antidiscriminatoria.

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