Circa un anno fa mi ero interrogata su uno degli aspetti più eclatanti della disciplina introdotta con il D.Lgs. 23/2015, noto come “Contratto a Tutele Crescenti”. A distanza di due anni dall’entrata in vigore del nuovo contratto o, più correttamente, del nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, pare opportuno tracciare un primo “stato dell’arte”, che prende le mosse dal raffronto tra “vecchia” e “nuova” normativa, cioè tra quanto disposto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori risultato dopo le modifiche della Legge Fornero e CTC, evidenziando gli elementi ancora più discussi e discutibili della nuova disciplina e cercando di individuare soluzioni interpretative e pratiche per i casi di licenziamenti disciplinari che ricadano nell’applicazione della nuova disciplina.
Il dato di partenza
Il dato di partenza è la considerazione (empirica, ma ragionevolmente fondata) che, a due anni dall’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015, gli addetti ai lavori stanno vivendo una sorta di limbo, nel quale trovano spazio ancora molti licenziamenti per motivi soggettivi riconducibili alla disciplina dell’art. 18 L. 300/1970, mentre non si è ancora avuto modo di affrontare in sede giudiziale casi di licenziamento disciplinare riconducibili alle conseguenze del CTC.
Questa situazione pare dovuta al fatto che le grandi questioni interpretative legate al “nuovo” art. 18 non sono ancora state compiutamente risolte e, d’altro canto, talune di quelle questioni possono dirsi valide anche in relazione alle disposizioni proprie della disciplina del CTC.
Inoltre, l’assenza di casistica giurisprudenziale sull’art. 3 D.Lgs. 23/2015 si può spiegare anche con il fatto per cui in un arco di tre anni abbiamo avuto ben due riforme “epocali”, che hanno determinato il completo rovesciamento del paradigma dell’art. 18; le riforme diventano addirittura tre, in cinque anni, se consideriamo anche il Collegato Lavoro.
Tutti questi sono elementi che vanno ad aggravare lo stato di incertezza e giustifica quindi l’assenza di casi decisi con sentenze.
Insussistenza del fatto contestato e contratto a tutele crescenti
Credo sia indispensabile, per tentare di proporre soluzioni argomentative ed interpretative nell’ambito del CTC, prendere le mosse dal primo problema affrontato dalla giurisprudenza e dalla dottrina rispetto alla formulazione del comma 4 dell’art. 18, nella versione post Fornero, relativo come noto all’interpretazione della locuzione “insussistenza del fatto contestato”.
La questione è in realtà ancora aperta e, agli inizi ha dato origine alla querelle tra i fautori della teoria del “fatto giuridico”, cioè il fatto/inadempimento comprensivo di tutti i suoi elementi di carattere oggettivo e soggettivo quindi dolo, colpa, grado in intensità dell’elemento soggettivo, imputabilità, rilevanza; e quelli della teoria del “fatto materiale”, inteso quindi come “puro fenomeno storico e fenomenologico”.
Nonostante la giurisprudenza di merito si sia da subito compattata intorno alla tesi del “fatto giuridico”, quindi inteso come accadimento comprensivo di condotta, diligenza nell’esecuzione, colpa nell’inadempimento, affermando che “la nozione di fatto valevole ai fini della scelta della sanzione non può che comprendere tutto il fatto nella pienezza dei suoi elementi costitutivi, sia elemento oggettivo quindi che soggettivo”, un inaspettato e ancora controverso obiter dictum della Cassazione (sentenza n. 23669/2014) ha fatto propria la teoria del “fatto materiale”, consentendo quindi (e giustificando) la formulazione dell’art. 3, comma 2 del D.Lgs. 23/2015 secondo cui “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione” il Giudice dispone la reintegrazione.
Attualmente quindi l’interprete si trova di fronte a due vie: la vigenza per alcuni rapporti delle tutele proprie dell’art. 18 L. 300/1970 e la nuova disciplina per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, che possono condurre a risultati opposti, anche – per assurdo – in casi simili.
Infatti laddove il Giudice non ravvisa la sussistenza di tutti gli elementi del “fatto”, quindi il dato materiale e il dato soggettivo, ritiene il fatto insussistente e applicava quindi il 4 comma dell’art. 18 disponendo la reintegrazione.
Secondo la lettera dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 invece il giudice deve (o dovrebbe) arrestarsi all’accertamento del solo “fatto materiale”.
E’ possibile quindi affermare che ogni contrasto sorto in sede di applicazione e interpretazione della Legge Fornero sia risolta?
Altre ipotesi di palese illegittimità e contratto a tutele crescenti
In realtà restano aperte questioni pesanti, che verosimilmente si trascineranno anche in sede di interpretazione della nuova normativa e che attengono almeno a tre ipotesi “limite”: il licenziamento disposto a fronte di fatto materiale sussistente, che non rappresenta alcun inadempimento ed è quindi irrilevante; il licenziamento disposto a fronte di fatto materiale sussistente, ma commesso dal lavoratore che riteneva di adempiere un obbligo o di rispettare una prassi; e il licenziamento intimato a fronte di un fatto materiale sussistente e disciplinarmente rilevante, ma di lievissima entità: il caso di scuola del ritardo di pochi minuti.
In questi casi così tanto estremi la corretta interpretazione della “insussistenza del fatto” consentiva al lavoratore di accedere alla tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4 L. 300/1970; la questione è invece se sarà possibile recuperare tale forma di tutela nell’alveo della nuova disciplina.
La risposta può essere positiva facendo leva su una interpretazione che non si arresta alla mera constatazione di una volontà legislativa che pare aver voluto definire il “fatto materiale” come il solo elemento rilevante ai fini disciplinari.
Non dobbiamo infatti trascurare che un fatto storico produce effetti solo laddove questo fatto sia in qualche modo considerato dall’ordinamento: il “fatto materiale” che può determinare il licenziamento di un lavoratore è inevitabilmente connotato giuridicamente ed è quindi naturalmente un inadempimento, rispetto al quale l’ordinamento impone di valutare elementi quali la condotta, l’intenzionalità, la gravità stessa dell’inadempimento.
Lo stesso art. 3, comma 2 del D.Lgs. 23/2015 d’altro canto non si arresta a parlare di “fatto materiale”, ma parla di “fatto materiale contestato”, con ciò riferendosi non solo e non tanto al dato formale del procedimento disciplinare, ma soprattutto al rilievo disciplinare che il “fatto materiale contestato” deve avere.
Un ulteriore argomento spendibile nell’interpretazione del recesso per motivo soggettivo in ambito di CTC potrebbe venire da un arresto della Corte di Appello di Brescia del 30 aprile 2015 che, anche se reso con riferimento alle conseguenze dell’art. 18 L. 300/1970 post Legge Fornero, consentirebbe il recupero di spazi interpretativi per la reintegrazione nei casi di licenziamento pretestuoso, ossia intimato a fronte di un abbaglio del datore di lavoro, di un suo torto palese: pensiamo al caso di una lavoratrice licenziata per giusta causa, dove il fatto contestato – pure sussistente – risulta spiegato con una prassi aziendale sempre rispettata e mai smentita.
In questi casi infatti la sola sussistenza del fatto storico non potrebbe di per sé legittimare la più grave forma di recesso poiché secondo la Corte bresciana, con argomentazione condivisibile, “deve escludersi che possa dar luogo alla tutela meramente indennitaria una qualsivoglia infrazione …perché una violazione minima, anche se non codificata nella elencazione che prelude alla sanzione conservativa, non potrebbe mai comportare la sola tutela indennitaria quando risulti evidente l’abbaglio del datore di lavoro, o il suo torto palese, o la pretestuosità della contestazione”
La tutela meramente indennitaria nel contratto a tutele crescenti – profili di tenuta costituzionale e danni ulteriori – cenni
Laddove invece venga meno la possibilità di chiedere, e ottenere, la reitegrazione, sorgono interrogativi sulla compatibilità della tutela meramente indennitaria, determinata solo in funzione dell’anzianità di servizio, rispetto ai principi di declinazione comunitaria di “effettività della tutela” rispetto al recesso illegittimo.
Tralasciando i (numerosi, a parere di chi scrive) profili di incostituzionalità di una norma che non è ancora stata messa alla prova dei Giudici, tra cui le evidenti questioni legate al venire meno del canone della proporzionalità della sanzione, taluni interpreti hanno ipotizzato la possibilità per il lavoratore di chiedere il risarcimento del danno ulteriore ex art. 1218 e 1223 c.c., facendo leva sul principio di integrale risarcimento del danno conseguente al recesso illegittimo da un lato e, dall’altro, dalla natura solamente indennitaria delle somme liquidate dal giudice con la sentenza ex art. 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015.
Questo articolo è in fase di pubblicazione nella rivista Pianeta Lavoro e Tributi di Teleconsul