Il 19 maggio 2017 la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ha pubblicato due sentenze nella quali è tornata a pronunciarsi e a confermare i consolidati orientamenti in tema di tardività nell’ambito del procedimento disciplinare e, più specificamente, in tema di tardività della contestazione disciplinare (sentenza n. 12712/2017) e di irrogazione della sanzione (sentenza n. 12714/2017).
Come noto, il procedimento disciplinare è disciplinato dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, che non solo rende una precisa descrizione degli adempimenti che il datore di lavoro deve compiere nel caso in cui rilevi che il lavoratore ha compiuto un illecito disciplinare, ma ne scandisce anche le tempistiche che devono essere rispettate. In particolare, e posto che le norme disciplinari devono anche “applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano”, non solo “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito nella sua difesa” ma deve attendere i cinque giorni “canonici” (“i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”).
In questo senso, quindi, è pacifico che il legislatore dello Statuto dei Lavoratori, regolamentando il procedimento disciplinare, si è innanzitutto preoccupato di stabilire dei termini minimi che devono essere rispettati dal datore di lavoro per concedere al lavoratore di esercitare il proprio diritto di difesa.
Più controversi invece sono i tempi massimi entro cui il datore di lavoro può procedere nella contestazione di un illecito disciplinare e i tempi entro cui – una volta che il procedimento disciplinare abbia avuto inizio – il datore di lavoro possa procedere con l’irrogazione di una sanzione.
Proprio la prima delle due questioni – ossia quanto tempo dopo la commissione del fatto possa legittimamente essere esercitato il potere disciplinare – è stata oggetto della sentenza n. 12712/2017.
La vicenda traeva origine dal licenziamento di un lavoratore di una società assicurativa addetto alla liquidazione dei sinistri che, nel novembre 2011, si vedeva contestare ben quindici liquidazioni valutate come irregolari ed effettuate relativamente a sinistri verificatisi tra il 2007 e il 2009.
La Corte di Appello di Catanzaro riteneva sul punto sussistente la violazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per inosservanza del requisito dell’immediatezza: secondo la Corte non era infatti stato provato che – nonostante i fatti fossero avvenuti diversi anni prima – il datore di lavoro ne avesse avuto conoscenza solo a fine 2011 (come sostenuto dalla sua difesa) con conseguente invio della contestazione disciplinare.
Secondo la Corte, anzi, dalla manifesta tardività, unità alla pluralità delle contestazioni disciplinari relative a fatti avvenuti nell’arco di due anni e contestati dopo altri due, non poteva che discendere una grave violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede. Inoltre, anche volendo addebitare il ritardo nella contestazione disciplinare alla complessa organizzazione aziendale, comunque non si sarebbe potuta giustificare una condotta così difforme dai principi di diritto sia da un punto di vista oggettivo (quattro anni dalla prima violazione) che soggettivo (provata conoscenza delle violazioni in epoca in ogni caso anteriore alla contestazione).
La società, contestando la pronuncia della Cda, evidenziava il principio già reso dalla Corte di Cassazione (sentenze n. 3948/2000, n. 20729/2004 e n. 20270/2009) secondo cui “l’immediatezza e la tempestività, che condizionano la validità del licenziamento per giusta causa, vanno intesi in senso relativo e possono, nei casi concreti, essere compatibili con un intervallo temporale reso necessario all’accertamento dei fatti da contestare ed alla valutazione degli stessi, specie quando il comportamento del lavoratore consti di una serie di dati fattuali che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione globale del datore di lavoro, ed in questa ipotesi l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale da quelli precedenti”.
La Corte di Cassazione ha aderito a tale prospettazione, stabilendo che “in materia di licenziamento per giusta causa il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell’immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi”.
Ancora, i giudici di legittimità hanno precisato come il computo del tempo per stabilire la tempestività o meno della sanzione disciplinare debba decorrere non dall’effettivo compimento del fatto, ma dal momento di conoscenza dello stesso e tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto: una volta che la notizia del presunto illecito sia giunta a conoscenza del datore di lavoro occorre altresì uno “spatium deliberandi” al fine di accertare la fondatezza dell’illecito, anche svolgendo le indagini necessarie alla sua verifica.
La seconda pronuncia (sentenza n. 12714/2017) ha invece visto la Corte di Cassazione statuire in merito al tempo entro cui dovrebbe essere irrogata la sanzione disciplinare.
Una lavoratrice lamentava infatti di essere stata licenziata in violazione del CCNL applicato al suo contratto, secondo il quale la sanzione disciplinare dove necessariamente essere irrogata entro 30 giorni dalla contestazione degli addebiti.
Nei fatti, chiedendo di potersi difendere per il tramite dell’audizione orale, la lavoratrice non vi prendeva parte a causa di intervenuti periodi di malattia, e così oltrepassando il termine di 30 giorni previsto per il CCNL.
Secondo la lavoratrice, dunque, il licenziamento doveva ritenersi illegittimo in quanto irrogato tardivamente.
Secondo la Corte di Cassazione, e in conferma della sentenza di merito resa dalla Corte d’Appello di Napoli, “non potrebbe ritenersi sospesa la decorrenza del termine contrattuale per tutto il periodo in cui la mancata audizione sia dipesa da un fatto riferibile al lavoratore”, posto che durante il periodo identificato dalla contrattazione collettiva come termine entro cui irrogare la sanzione disciplinare la lavoratrice frapponeva un’assenza per malattia, ossia un impedimento non imputabile a volontà, inerzia o ritardo del datore di lavoro. La Suprema Corte ha anzi affermato che “eccepire in tal caso che il provvedimento irrogato sarebbe tardivo perché adottato oltre il termine contrattuale, viola certamente il principio di buona fede e correttezza, tanto da far ritenere verosimilmente dilatorie le richieste di rinvio” esercitate dalla lavoratrice attraverso gli eventi di malattia.