Chiara Vannoni, luglio 2016
Con l’approssimarsi dell’estate, la domanda ricorrente è: “quando vai in ferie?”. Ebbene le ferie sono spesso motivo di conflitti endemici. Può quindi risultare utile condividere una panoramica sulla fattispecie, che ne tracci non tanto gli aspetti ludici e di viaggio, quanto quelli giuridici, ovvero i casi particolari e controversi che, nelle realtà aziendali e non, si possono verificare.
Con l’approssimarsi dell’estate, la domanda ricorrente è: “quando vai in ferie?”. Ebbene le ferie sono spesso motivo di conflitti endemici. Può quindi risultare utile condividere una panoramica sulla fattispecie, che ne tracci non tanto gli aspetti ludici e di viaggio, quanto quelli giuridici, ovvero i casi particolari e controversi che, nelle realtà aziendali e non, si possono verificare.
Innanzitutto, il diritto alle ferie è riconosciuto al lavoratore dipendente direttamente dalla Costituzione. L’art. 36, terzo comma, afferma infatti che “il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite”, senza quantificare la durata di tale periodo, ma precisando che è un diritto irrinunciabile.
L’art. 2109 c.c. analogamente parla di “diritto ad un periodo di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel periodo che il datore di lavoro stabilisce”. La disposizione codicistica prevede che, in via generale, tale periodo debba essere “continuativo”, ma pare riconoscere unicamente al datore di lavoro la facoltà di stabilirne la collocazione.
Ultimo, ma non meno importante, il D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (che ha attuato due direttive CE in materia di organizzazione dell’orario di lavoro) chiarisce che “il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva, va goduto per almeno due settimane consecutive. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità”.
Riscostruita, quindi, a livello sistematico la fattispecie, vediamo ora di comprenderne meglio la ratio,e di chiarire alcuni punti controversi nell’applicazione pratica.
Le ferie sono un diritto irrinunciabile
In primo luogo, è importante ricordare che la funzione delle ferie è quella di consentire al lavoratore la reintegrazione delle energie psicofisiche, oltre che di consentirgli la partecipazione alla vita di relazione, familiare, sociale nonché per consentirgli il soddisfacimento di esigenze di carattere ricreativo e culturale (tutti beni riconducibili a tutela di diretta derivazione costituzionale: Corte cost., 22 maggio 2001, n. 158, in Lavoro nella Giur., 2001, 7, 643; Corte cost., 19 dicembre 1990, n. 543; Corte cost., 14 giugno 1990, n. 297; Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 616; Cass., 12 novembre 2001, n. 14020; Cass., 10 dicembre 2001, n. 15597).
Per questo motivo il diritto alle ferie è sancito come “irrinunciabile” dal lavoratore, previsione questa che si ritiene non possa essere superata neppure con un accordo “privato” tra il lavoratore e il datore di lavoro.L’irrinunciabilità deriva dal fatto che la funzione delle ferie è quella di garantire il recupero delle energie del lavoratore, interesse questo che prevale su altre ragioni (fra tutte, quella economica del datore di lavoro).
Le ferie sono proposte dal lavoratore e approvate dal datore di lavoro
Una delle questioni più dibattute rispetto al godimento delle ferie riguarda la determinazione del loro periodo di godimento, cioè se tale decisione spetti unicamente al datore di lavoro, oppure se si tratti di una decisione in qualche modo congiunta.
La risposta è inevitabilmente salomonica.
La Giurisprudenza ha affermato che “non è il dipendente, ma l’imprenditore, nell’esercizio del proprio potere di organizzazione, a dover stabilire la data o il periodo di godimento delle ferie da parte del prestatore, quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa. Al lavoratore, invece,compete la facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale (Trib. Milano 21/1/2008)”
In sostanza, il dipendente avrebbe unicamente la facoltà di indicare il periodo in cui vorrebbe godere delle ferie, fermo restando il potere del datore di lavoro di stabilire in concreto tale periodo. Il datore di lavoro, però, non può agire come se non avesse alcun limite: il suo potere è infatti contenuto dalla necessità di trovare una “via di mezzo” tra il buon funzionamento della propria attività e il diritto del lavoratore all’effettivo godimento delle ferie, in un periodo che rispetti per quanto possibile i suoi interessi e le sue necessità.
Pertanto, è certamente illegittima la determinazione unilaterale del periodo di godimento delle ferie da parte del datore di lavoro qualora non si considerino gli interessi dei lavoratori e non vi siano comprovate esigenze organizzative aziendali.In altre parole, deve essere salvaguardata la funzione fondamentale dell’istituto di consentire al lavoratore la reintegrazione delle energie psicofisiche.
Questo però, è bene chiarirlo, non legittima il lavoratore a modificare di propria iniziativa il periodo di ferie, o ad autoassegnarselo.
La malattia durante le ferie può sospenderle, ma non sempre
Altro caso discusso, è quello della malattia che subentra durante le ferie: che cosa succede in quei casi?
La Corte di Cassazione (sentenza 2515/96) ha affermato che per l’art. 2109 c.c., come rivisto dalla Corte Costituzionale, la malattia sospende le ferie, salvo il caso in cui la malattia stessa non sia tale da pregiudicare la funzione delle ferie, il cui scopo è consentire il recupero delle energie psico-fisiche attraverso il riposo e la ricreazione.
Infatti il principio secondo cui la malattia, insorta durante il periodo di ferie,sospenda il loro decorso non ha valore assoluto, ma sono ammesse eccezioni in relazione alla specificità degli stati di malattia denunciati e alla loro incompatibilità con l’essenziale funzione di riposo, recupero delle energie psicofisiche e ricreazione, propria delle ferie. Ne consegue che la conversione dell’assenza per ferie in assenza per malattia operi soltanto a seguito della comunicazione dello stato di malattia al datore di lavoro.
In sostanza, dipende dal tipo di malattia. Si può affermare che uno stato ansioso depressivo (purtroppo negli ultimi tempi assai frequente in capo a lavoratori, in relazione alla tipologia delle attività svolte e al contesto lavorativo) sia compatibile con la fruizione delle ferie, mentre una forma fortemente influenzale o un ricovero ospedaliero certamente non lo sono.
Il comporto: l’utilizzo delle ferie per prolungare la malattia per prevenire il licenziamento
Diversamente, nel caso di malattia prolungata e di timore del lavorare di superare il periodo di comporto (cioè il lasso di tempo di malattia durante il quale è prevista la conservazione del posto di lavoro), il dipendente potrà chiedere – anzi, ne avrà il diritto – di usufruire dei giorni di ferie non goduti per appunto scongiurare l’evento del superamento del comporto e quindi il licenziamento.
Il lavoratore dovrà quindi fare apposita richiesta per poter godere delle ferie residue e tale richiesta dovrà essere accolta e, qualora il datore di lavoro ritenesse opportuno rifiutare tale richiesta, sarà tenuto a indicare nel dettaglio i motivi del rifiuto.
La giurisprudenza ha avuto modo di esprimersi diffusamente sul punto, rilevando sempre, nelle varie pronunce successive, il “rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo (cioè mediante la fruizione delle ferie, NdR), la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto”.
Insomma, i Giudici sembrano ben più propensi a tutelare, tra i due interessi contrapposti, quello del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.
La cessione delle ferie eccedenti i minimi previsti
Ultima notazione la merita la recente disposizione, contenuta nel Jobs Act, relativa all’introduzione dell’istituto della cessione. Si tratta di una sorta di donazione, a titolo gratuito appunto, che un lavoratore fa a favore di altri colleghi dipendenti, che necessitino di assistere figli minori, dei riposi e delle ferie maturati ed eccedenti rispetto ai minimi previsti che, nel caso delle ferie, abbiamo visto essere di quattro settimane.
La cessione non richiede il consenso del datore del lavoro e le modalità per il concreto esercizio della cessione dovranno essere fissate dai contratti collettivi: ad oggi però non si rinvengono accordi in tale senso.
Questo contributo è in fase di pubblicazione nella rivista “Pianeta lavoro e tributi”
Annalisa Rosiello, giugno 2016
Premesse
Il mio spazio di osservazione è quello di avvocato pro-labour che da anni si occupa della difesa delle lavoratrici e dei lavoratori vittime di mobbing, molestie sessuali e disfunzioni organizzative.
Partendo da questo mio specifico punto di vista vorrei brevemente parlare, attraverso qualche esempio, dei possibili abusi e/o arbitrarietà nell’esercizio da parte delle aziende del potere direttivo e dello ius variandi, i cui confini sono stati notevolmente ampliati dall’art. 3, d.lgs. 81/2015 (nuovo 2103 c.c.) e di come il diritto antidiscriminatorio e, più in generale, i principi costituzionali e di diritto comune possano fare da argini a questi possibili abusi.
Premesse
Il mio spazio di osservazione è quello di avvocato pro-labour che da anni si occupa della difesa delle lavoratrici e dei lavoratori vittime di mobbing, molestie sessuali e disfunzioni organizzative.
Partendo da questo mio specifico punto di vista vorrei brevemente parlare, attraverso qualche esempio, dei possibili abusi e/o arbitrarietà nell’esercizio da parte delle aziende del potere direttivo e dello ius variandi, i cui confini sono stati notevolmente ampliati dall’art. 3, d.lgs. 81/2015 (nuovo 2103 c.c.) e di come il diritto antidiscriminatorio e, più in generale, i principi costituzionali e di diritto comune possano fare da argini a questi possibili abusi.
Anticipo, tuttavia, che esiste un ambito in cui il nuovo 2103 c.c. potrebbe essere utilizzato per ampliare i confini della tutela della salute e della dignità dei lavoratori disabili nonché dell’obbligo di ripescaggio (dei disabili e non [1]); ed infatti se da un lato si è allargato il potere direttivo e lo ius variandi, dall’altro e contemporaneamente si è ampliato il dovere di cooperazione e di collaborazione del datore di lavoro.
È opinione da molti condivisa che il jobs act, e in particolare la nuova disciplina in materia di licenziamento, mansioni e controlli, abbia ampliato lo squilibrio di poteri fra datore di lavoro e lavoratore: squilibrio che la Costituzione mira ad attenuare (art. 3, art. 41, comma 2°, ecc.).
Questo emerge già solo esaminando il testo del nuovo articolo 2103 [2] : la possibilità per il datore di lavoro di assegnare al lavoratore mansioni riconducibili al livello di appartenenza sembra offrire, in apparenza, una scelta ben più ampia rispetto al precedente obbligo di assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti.
Tuttavia il mutamento delle mansioni non si accompagna ad un vero e proprio obbligo di formazione poiché la violazione di tale obbligo non sembra comportare alcuna conseguenza. Inoltre il fatto che appartengano al medesimo livello mansioni tra loro fortemente eterogenee, che implicano gradi diversi di preparazione e di competenza, sta ad indicare evidentemente che il legislatore (delegato) ha inteso assegnare al datore di lavoro un ampio margine di discrezionalità, potendo quest’ultimo assegnare il lavoratore a mansioni anche totalmente diverse da quelle da lui svolte fino a quel momento e per le quali potrebbe essere del tutto impreparato. Nel contempo, l’ampio margine di discrezionalità di cui gode il datore di lavoro aumenta il rischio dell’esercizio dello ius variandi per ragioni illecite; in particolare, l’assegnazione del lavoratore a mansioni del tutto eterogenee, seppure riconducibili al medesimo livello di inquadramento, potrebbe sottendere un intento discriminatorio, ritorsivo o di molestia.
Per non parlare, sempre in tema di jobs act, del risarcimento a “tabellina del due” nei licenziamenti, rivolto a limitare la discrezionalità nel giudice nella determinazione ex post del risarcimento dovuto tenendo conto delle caratteristiche del caso concreto: ad esempio, l’arbitrarietà del licenziamento o la palese violazione dell’obbligo di ripescaggio.
In sostanza il “favor” nei confronti del datore di lavoro risulta evidente e, peraltro, in controtendenza con la gerarchia dei valori costituzionali, laddove dignità, salute, lavoro costituiscono un limite alla libertà di iniziativa economica; la predilezione per l’organizzazione e le logiche del mercato, rispetto ai valori della dignità e, per effetto, anche della salute (la lesione della dignità, come sappiamo, fa ammalare le persone) emerge in maniera chiara.
Ebbene, in questo scenario, l’avvocato che assiste i lavoratori dovrà studiare attentamente come il diritto antidiscriminatorio e, più in generale, la legislazione antinfortunistica e l’art. 2087 c.c. possano sostenere nuove strategie e percorsi a tutela della salute e della dignità del lavoratore anche in costanza del rapporto, e non solo in caso di licenziamento.
Vengo ora ad alcuni casi, che nella mia esperienza professionale registro con maggiore frequenza.
- spostamento orizzontale e discriminazioni
- spostamento orizzontale e tutela della dignità e della salute del lavoratore
- nuovo 2103 ed estensione dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli
1) Spostamento orizzontale e discriminazioni
Il mobbing di “generazione jobs act”, le discriminazioni e le molestie possono essere realizzate anche attraverso l’esercizio dello ius variandi, come disciplinato dal nuovo art. 2103 c.c.
Facciamo qualche esempio: un contabile viene assegnato alle mansioni di commerciale “spinto” al fine di stancarlo e indurlo alle dimissioni perché di età avanzata oppure perché caregiver.
Si ricorda a tale ultimo proposito che la giurisprudenza comunitaria applica l’impianto normativo antidiscriminatorio anche ai caregivers [3] così come ai casi di discriminazione legata all’età e all’handicap. L’imprenditore, infatti, potrebbe essere indotto a stancare ancora di più chi è già stanco, così da spingerlo ad abbandonare il lavoro per far posto a persone più disponibili e meno costose, anche e soprattutto in termini di diritti e tutele.
Torno al contabile spostato orizzontalmente perché cargiver o di età non più giovane, quindi per ragioni discriminatorie: questa persona si trova catapultata in altro reparto senza, ad esempio, avere ricevuto una formazione adeguata, un supporto all’inserimento o persino una spiegazione sulle nuove mansioni. Questo lo espone fortemente, nei mesi a seguire, alla lesione della propria dignità e decoro come persona e come professionista nonché al rischio stress lavoro-correlato.
Quale azione si può intraprendere per allegare e dimostrare che questo lavoratore è effettivamente vittima di discriminazione e/o di condotte moleste a sfondo discriminatorio?
Come sappiamo nel diritto antidiscriminatorio le molestie sono assimilate alle discriminazioni ed esiste un regime di allegazione e prova più agevole e un sistema sanzionatorio molto forte.
Dall’intervista al lavoratore cercherò di capire le motivazioni dello spostamento, se sussistono mail, conversazioni, testimonianze, frasi minacciose, precedenti condotte marginalizzanti o ritorsive ai danni di persone facenti parte della stessa “categoria a rischio”, ecc..
Ebbene, qualora mettendo insieme questi elementi dovessi ravvisare la presenza di motivi discriminatori porterò davanti al giudice il caso chiedendo nelle conclusioni:
- Accertare e dichiarare la discriminatorietà e la nullità del provvedimento datoriale per violazione dell’art. 15 L. 300/1970 (ed eventualmente anche in combinato con gli artt. 1344, 1345 e 2087 cod.civ.); Accertare e Dichiarare il diritto del lavoratore di essere adibito alle precedenti mansioni e, per l’effetto,
- Condannare il Datore di Lavoro alla adibizione del lavoratore alle mansioni da ultimo svolte, nonché
- Condannare il Datore di Lavoro al risarcimento del danno derivante dalla natura discriminatoria del provvedimento in misura effettivamente compensativa della lesione patita, dissuasiva del comportamento e aggravata in caso di ritorsione ad una legittima rivendicazione (art. 4, commi 5° e 6° d.lgs. 216/2003)
L’azienda, in presenza di elementi indiziari forti, dovrebbe dimostrare l’inesistenza della discriminazione ai sensi del d.lgs. 216/2003, art. 4.
2) Spostamento orizzontale e tutela della dignità e della salute
Il ripristino di mansioni adeguate e i danni potrebbero essere rivendicati anche in casi dove non siano ravvisabili ragioni discriminatorie o ritorsive: sarà certamente più complesso ma non impossibile.
Si pensi ancora al nostro contabile assegnato al commerciale (spostamento sempre orizzontale): quel lavoratore ha svolto le stesse mansioni – oltretutto sue tipiche – magari per vent’anni e, all’improvviso, viene assegnato a mansioni di commerciale. Da una prestazione svolta in ufficio, in sostanziale calma, senza particolare esposizione a contatti, relazioni, telefonate, incontri, viene a trovarsi improvvisamente in un contesto di relazioni esterne, conferenze frequenti anche in lingua straniera, spostamenti, pressioni da capi e da clienti; il tutto senza avere non solo una “forma mentis” o un’attitudine adatta ma neppure una preventiva formazione ed un adeguato periodo di training. Al di là di coloro che possano trovare stimolante un cambiamento radicale, la legge delle probabilità indica che molto più facilmente quella persona resterà esposta ad una importante situazione di smarrimento professionale, con conseguente lesione della propria dignità (nella relazione con capi, colleghi, sottoposti e clienti), del proprio decoro professionale, nonché al rischio stress lavoro-correlato.
Vediamo un altro esempio, questa volta di demansionamento di carattere quantitativo: può verificarsi che al lavoratore, prima destinato ad esempio a dieci mansioni diverse per la capogruppo, ne conservi solo una o due (ad esempio inserimento fatture) ma per più aziende del medesimo gruppo. Queste mansioni lo impegnano al 100% e corrispondono sempre al medesimo profilo di inquadramento ma, con molta probabilità, svuotano di significato la preparazione specifica acquisita e la competenza e finiscono per impoverirne il patrimonio culturale e la sua stessa “spendibilità”.
In precedenza c’erano ottime possibilità di ottenere l’accertamento dell’illegittimità di queste condotte datoriali.
E ora? Cosa fare ora in questi casi?
Ebbene in questi casi, in cui si può verificare una lesione della dignità, professionalità e salute non manderò certamente via questo lavoratore fermandomi ad un’interpretazione formalistica delle recenti norme!
Seppur con difficoltà evidenti, un’interpretazione costituzionalmente orientata del primo comma dell’art. 2103 c.c. dovrà passare per la salvaguardia e tutela del bene della dignità e della professionalità (intesa come background e accrescimento; equivalenza statica e dinamica).
L’ancoraggio normativo potrebbe risiedere nell’art. 2087 c.c. (soprattutto nel caso di ripetitività delle mansioni ma anche nel caso di distanza dal background), e nei principi costituzionali, in particolare nell’art. 4 (diritto al lavoro “secondo le proprie possibilità e la propria scelta, per concorrere “al progresso materiale o spirituale della società”), nella dignità della persona (art. 2 “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”), e nell’art. 41, 2° comma (l’iniziativa economica privata non può svolgersi…. In modo da recare danno alla dignità umana”, ecc.).
Ebbene, qualora – mettendo insieme tutti gli elementi del caso – si ravvisi la violazione dei diritti fondamentali di dignità e salute, formulerò al giudice le seguenti conclusioni:
- Accertare e dichiarare la illegittimità del provvedimento datoriale per violazione dell’art. 2087 c.c., degli artt. 4 e 41, secondo comma, Cost.
- Accertare e Dichiarare il diritto del lavoratore di essere adibito alle mansioni precedenti ovvero a mansioni effettivamente compatibili con la propria dignità e la propria salute, e per l’effetto,
- Condannare il datore di lavoro alla adibizione del lavoratore alle mansioni precedenti ovvero a mansioni effettivamente compatibili con la propria dignità e la propria salute nonché
- Condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2087 [Danno in questo caso da allegare e dimostrare]
L’azienda potrebbe sostenere l’esistenza di motivazioni oggettive e forti (ad esempio lo spostamento è stato disposto per evitare il licenziamento o il trasferimento in sedi disagiate). In tal caso il giudice effettuerà un giudizio di bilanciamento dei diritti e degli interessi coinvolti.
Ma, ci si potrebbe chiedere, esiste un obbligo di motivazione del datore di lavoro? Personalmente credo che la motivazione vada sempre data, anche nel caso di spostamento effettuato in base al primo comma dell’articolo 2103: è vero che il primo comma non prevede esplicitamente l’obbligo di motivazione ma è anche vero che la legge delega sanciva tale obbligo [4]. In ogni caso, la motivazione dovrebbe essere fornita in base ai principi di buona fede, correttezza e trasparenza nelle scelte di gestione, e quindi anche di verificabilità ex post, da parte del giudice, degli interessi aziendali per poter operare un bilanciamento con i valori di dignità e salute [5].
Nel nostro caso – ovvero quello dello spostamento di un lavoratore su mansioni lontane dal proprio background senza che vi sia adeguata motivazione – si pone dunque un problema di buona fede e anche di controllo effettivo da parte del giudice della congruità, ragionevolezza e non arbitrarietà dello spostamento. In assenza di adeguata motivazione e nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice potrebbe dare peso e prevalenza ai valori di cui al all’art. 3 secondo comma, 4, , 41, 2° comma 2 e quindi ad accogliere le domande del ricorso.
3) Nuovo 2103 ed estensione dell’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli”
Come dicevo in premessa c’è un ambito in cui il nuovo 2103 potrebbe innescare un circolo virtuoso avendo senza dubbio ampliato, come vedremo, il dovere di cooperazione del datore di lavoro: mi riferisco ai ragionevoli accomodamenti da adottarsi – per legge – in favore dei portatori di handicap.
Occorre partire dalla nozione di handicap come elaborata dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria e interna; nella nozione di handicap non rientra solo la persona riconosciuta disabile in base alla normativa interna (ll. 104/92, 68/99, d.lgs. 81/08, artt. 41 e 42), ma anche e soprattutto la persona che – in base alla definizione “allargata” di handicap resa dalla CGUE – sia affetto da una malattia ed una limitazione “risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata) [6].
Nell’esempio del nostro contabile destinato al commerciale: potrebbero rientrare nel concetto – purché non si tratti di episodi di breve durata – gli eventuali attacchi di panico, l’ansia o le crisi depressive miste, l’insonnia, l’ipertensione e, più in generale, tutte quelle modifiche fisiologiche o anche solo del tono dell’umore che si accompagnano ai cambiamenti significativi e “misurabili” della propria vita?
Con riguardo a questo tipo di menomazioni e a tutela della dignità, della salute e del posto di lavoro dei disabili, può soccorrere la disciplina in materia di ragionevoli accomodamenti.
Questi sono regolati dalla direttiva 2000/78, dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e dal d.lgs. 216/2003 sulle discriminazioni per ragioni, tra le altre, di handicap.
Cosa sono gli accomodamenti ragionevoli? Riprendo testualmente la convenzione ONU, le cui definizioni sono state integralmente recepite nel testo del d.lgs. 216/ 2003 [7]: Accomodamento ragionevole indica le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali”. Sempre la convenzione ONU equipara il rifiuto di adottare un accomodamento ragionevole ad una discriminazione.
Ebbene, in caso di licenziamento (ma anche in caso di impossibilità sopravvenuta della persona a svolgere le mansioni che ha sempre svolto) cercherò di verificare se l’azienda può o avrebbe potuto adottare accomodamenti ragionevoli (non solo accomodamenti architettonici, mutamenti di orario ma anche assegnazione a mansioni e turni diversi o, persino, la possibilità di uno scambio di ruoli tra colleghi se la soluzione appare non sproporzionata).
L’istituto delle “soluzioni ragionevoli”, anche alla luce della nuova norma sulle mansioni, impone chiaramente un ripescaggio “allargato”.
Si ricorda ancora che il rifiuto di adottare soluzioni ragionevoli costituisce discriminazione.
Verificati ed allegati questi aspetti, le conclusioni che rassegnerò nel mio atto saranno chiaramente diverse a seconda che il rapporto sia ancora in corso oppure sia cessato per asserita impossibilità sopravvenuta/inidoneità alla mansione; in quest’ultimo caso chiederò nelle conclusioni di:
- Accertare e dichiarare la discriminatorietà e la nullità del licenziamento giusto il combinato disposto degli 41 e 42 D.Lgs. 81/2008, art. 10 L. 68/1999 in relazione all’art. 3bis D.Lgs. 216/2003 di recepimento della Direttiva 2000/78/CE
- Accertare e Dichiarare il diritto del Lavoratore di essere reintegrato in mansioni compatibili con le proprie condizioni di salute e, per l’effetto,
- Condannare il Datore di Lavoro alla reintegrazione del Lavoratore in mansioni compatibili, anche inferiori, individuate anche sulla base delle previsioni dell’art. 2103 c.c. nonché
- Condannare il Datore di Lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla natura discriminatoria del provvedimento
L’azienda dovrebbe dimostrare l’impossibilità della ricollocazione, percorrendo l’intero organigramma (arrivando al 6° comma dell’art. 2103 c.c., quello sulla novazione ex art. 2113 c.c.). Si pensi al dirigente al quale viene per disgrazia un ictus….dopo la riabilitazione questa persona non può più svolgere mansioni di dirigente né mansioni immediatamente inferiori, ma mansioni di impiegato d’ordine. L’azienda dovrà provvedere ad offrirle/proporle? Dal mio punto di vista si.
Con il collegato aspetto, ritengo, che il giudice – in questi casi – è chiamato a verificare concretamente l’organizzazione del datore di lavoro, a “guardargli in casa”, anche tramite un proprio consulente tecnico, per arrivare a dire in concreto come si sarebbe dovuto e potuto fare o fare meglio.
Da quanto detto emerge che in un momento storico in cui il ripescaggio appare ormai morto almeno per ciò che attiene i licenziamenti in era jobs act (dato che, se anche l’azienda non lo applica, rischia un risarcimento molto basso) vi è la concreta possibilità che possa invece riaffermarsi con forza laddove il mancato ripescaggio costituisca una violazione del ragionevole accomodamento e quindi una discriminazione.
Gli effetti potrebbero essere sorprendenti. E già ci sono precedenti molto interessanti (Tribunali di Pisa e Ivrea [8]).
Per concludere
Il diritto del lavoro è profondamente cambiato. Le riforme degli ultimi anni hanno determinato un arretramento del livello di tutela del lavoratore. Dunque, nuove strade debbono essere percorse, il diritto antidiscriminatorio potrà essere utilizzato, principalmente, quale baluardo e limite per i licenziamenti, ma anche per contrastare casi di utilizzo abusivo del potere direttivo e del poter di controllo. Nel contempo, la nuova norma sulle mansioni può costituire uno strumento per rafforzare ed ampliare la tutela effettiva del lavoratore affetto da disabilità, come definita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, sia in costanza di rapporto, sia in caso di licenziamento.
[1] Si veda Trib. Torino, est. Aprile, ord. 5 aprile 2016: “In ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro (a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 2103 c.c.) deve dimostrare di non aver potuto impiegare il lavoratore in mansioni diverse, anche di livello inferiore” (http://www.wikilabour.it/public/Segnalazioni/6666feca-f8cc-4e6d-a151-ec82890b3b0f/20160405_Trib-Torino.pdf)
[2] Si riportano le parti che richiameremo nella relazione.
2103 c.c., comma 1°. Prestazione del lavoro. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
2103 c.c., comma 3°. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Va subito detto che sul primo comma c’è una evidente questione mancato rispetto dei confini della delega, con relativo profilo di incostituzionalità ex art. 76 cost.; infatti l’art. 1, comma 7, lett. e) della legge 183/2014 così dettava al Governo:
e) revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera;
[3] CGUE, Coleman, Causa C-303/06: Una lavoratrice (segretaria) madre di bambino disabile viene sottoposta ad angherie, mobbing e trattamenti sfavorevoli poiché costretta spesso ad usufruire di permessi ed assentarsi per assistere il figlio. Esasperata decide infine di dimettersi. La Corte afferma: «Orbene, anche se in una situazione come quella di cui alla causa principale la persona oggetto di una discriminazione diretta fondata sulla disabilità non è essa stessa disabile, resta comunque il fatto che è proprio la disabilità a costituire, secondo la sig.ra Coleman, il motivo del trattamento meno favorevole del quale essa afferma essere stata vittima. (…) Una volta accertato che un lavoratore che si trovi in una situazione come quella di cui alla causa principale è vittima di una discriminazione diretta fondata sulla disabilità, un’interpretazione della direttiva 2000/78 che ne limiti l’applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili rischierebbe di privare tale direttiva di una parte importante del suo effetto utile e di ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire» (punti 50-51).
[4] V. nota 1. C’è un problema di eccesso di delega nel comma 1° dell’art. 2103 c.c. e dunque di possibile incostituzionalità della norma.
[5] L’obbligo di motivazione specifica, del resto, è cosa ben nota nel nostro ordinamento. La giurisprudenza sul lavoro a termine (vecchio regime), ad esempio, ricollegava l’obbligo di giustificazione specifica con l’esigenza di consentire un effettivo controllo del giudice sull’esistenza delle ragioni giustificatrici del termine (Cass. 27/3/2014, n° 7244: Il concetto di specificità in questione risente, dunque, di un certo grado di elasticità che in sede di controllo giudiziale deve essere valutato dal giudice secondo criteri di congruità e ragionevolezza).
[6] CGUE, HK Danmark, C-335/11 – Nozione sociale e dinamica di disabilità
«la disabilità è un concetto in evoluzione e (…) è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». «Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
«la nozione di handicap» non contenuta nella Dir. 2000/78/CE «va intesa come una limitazione che deriva, in particolare, da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona alla vita professionale».
«In base alle considerazioni di cui sopra, si deve rispondere alla prima e alla seconda questione dichiarando che la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata.» (punto 47).
Si veda anche l’art. 15 della Carta dei diritti universali del lavoro (proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla CGIL): Diritto a soluzioni ragionevoli in caso di disabilità oppure di malattia di lunga durata: 1.Tutti i lavoratori che, a causa di una disabilità o di una malattia di lunga durata, diagnosticata come curabile o incurabile, subiscano, in relazione all’esercizio della loro attività, una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori,hanno diritto a soluzioni ragionevoli, materiali e organizzative, compresa la modifica degli orari e, più in generale, dei tempi di lavoro, necessarie a consentire l’accesso al lavoro e lo svolgimento della prestazione lavorativa.
[7] L’art. 3, del d.lgs. 216/2003 è stato modificato dal d.l. 28 giugno 2013, n° 76 (introdotta dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea 4 luglio 2013 – Causa C-312/11 Commissione Europea contro Repubblica Italiana, che ha condannato l’Italia proprio per mancata imposizione dell’obbligo degli accomodamenti), nel testo integrato dalla legge di conversione 9 agosto 2013 n° 99, che prevede «3-bis. Al fine di garantire il rispetto del principio della parita’ di trattamento delle persone con disabilita’, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilita’ la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
[8] Tribunale di Pisa, ord., Tarquini est., 16 aprile 2015, che parlando sempre di ragionevoli accomodamenti afferma che potrebbero ritenersi praticati “solo ove fosse verificata anche l’infruttuosità o l’impraticabilità di modifiche delle attrezzature aziendali, dei turni o della distribuzione delle mansioni, aventi un costo non sproporzionato”; in senso conforme Tribunale di Ivrea, est. Fadda, 24 febbraio 2016 che afferma che l’azienda “avrebbe potuto o modificare la postazione lavorativa con una minima spesa oppure adibirla a mansioni differenti compatibili con il suo stato di salute, ma non certo recedere dal rapporto di lavoro.