di Annalisa Rosiello, settembre 2015
E’ un dato di realtà ormai, il Jobs act ha offerto al datore di lavoro un ulteriore strumento di pressione: la norma suldemansionamento facile. Il lavoratore rischia di ritrovarsi sempre più debole davanti a continue pressioni, senza peraltro poter contare su una legge specifica che faccia da contraltare. Ad oggi, infatti, manca una legge che disciplini e tuteli dal mobbing.
Il quesito è quindi d’obbligo: la normativa attualmente in vigore, oltre al progressivo disfacimento delle tutele, sta portando a qualche risultato?
Sembrerebbe proprio di no. Abbiamo assistito ad un incremento davvero modesto delle assunzioni a tempo indeterminato e, in alcuni casi, a tentativi elusivi pesanti laddove, per accedere alla de-contribuzione (ovvero a 8.000 euro annui per ogni neo-assunto entro il 2015) il personale è stato sostanzialmente “travasato” da una datrice diretta a una appaltatrice. Tutto questo per svolgere lo stesso lavoro/mansione, ma in maniera meno tutelata e a costi di gran lunga inferiori. Grazie al Jobs act stiamo assistendo inermi all’abbattimento delle tutele e al ridimensionamento dei salari, in pieno stile Grecia.
Ma è sufficiente? In concreto, si teme il pericolo – soprattutto nelle aziende maggiori – di un utilizzo fraudolento e indiscriminato della combinazione di alcune norme per congedare prematuramente il personale più “anziano”, intendendo per tale quello assunto prima del 7 marzo 2015 e dunque ancora tutelato dal vecchio testo dell’art. 18. Nel breve/medio periodo, si potrebbero pertanto verificare situazioni in cui i datori di lavoro “usino” la norma sul demansionamento (e anche quella, futura, sui controlli) per fare “mobbing generazionale”, ovvero generando pressioni sul personale più garantito per agevolare il turn-overcon personale meno costoso o di minor “peso” vuoi perché meno pagato, vuoi in quanto soggetto alla de-contribuzione, vuoi in quanto destinatario della norma sul licenziamento facile.
Che scenario ci si profila?
Entropico. L’Azienda potrebbe, ad esempio, assegnare a un “pittore o disegnatore esecutivo” mansioni di “magazziniere anche con funzioni di vendita”, oppure un “cassiere comune” potrebbe ritrovarsi a svolgere mansioni di “specialista di pescheria anche con funzioni di vendita”. Oppure declassando di un livello il dipendente, anche per mano di un contratto collettivo aziendale. O ancora catapultando in altro reparto un lavoratore senza fornirgli un’adeguata formazione o, persino, inducendo il dipendente a firmare – per una serie ampia di ragioni – nelle sedi “protette” una nuova e fortemente peggiorativa regolamentazione del rapporto.
E il lavoratore attraverso quali modalità e strumenti può reagire? Ebbene, qualora gli esempi citati si rivelino frutto di condotte ritorsive, discriminatorie o fraudolente, il lavoratore avrà sempre la possibilità di opporsi, essendo sì stato modificato l’art. 13 dello statuto, ma non l’art. 15 che vieta la discriminazione nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, e comunque vieta condotte discriminatorie volte a creare “altrimenti pregiudizio” al lavoratore.
I lavoratori potranno, quindi, richiedere sia il ripristino delle condizioni pregresse, sia il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali.
In questo contesto, spetterà ai lavoratori e alle parti sociali svolgere nei luoghi del lavoro una minuziosa e capillare attività informativa e formativa nonché monitorare e vigilare al fine di contrastare l’utilizzo discriminatorio, ritorsivo, illecito o comunque distorto della norma sulle mansioni.
Tuttavia, nonostante le iniziative assumibili per contrastare gli abusi, si ritiene sia necessario fornire un ulteriore ed efficace strumento di tutela dei lavoratori e degli operatori del diritto (in attesa dell’abrogazione o modifica delle norme su demansionamento e licenziamento facili).
Riteniamo in particolare che, ora come non mai, sia necessaria e urgente una legge a disciplina dei fenomeni del mobbing e delle condotte variamente persecutorie (quali le ritorsioni) proprio per tentare di arginare la deriva. Pensiamo che questa legge non debba regolamentare solo gli aspetti penali (v. ad esempio la recente proposta del Movimento 5 stelle) ma anche quelli civili, come contemplato già in passato da una serie di disegni di legge mai presi in considerazione. Poiché l’esperienza insegna che è molto complesso dimostrare il mobbing secondo l’attuale definizione data dalla giurisprudenza, vuoi per presenza di oneri probatori rigorosi, vuoi per l’assenza di una tutela dei testimoni, vuoi, ancora, per la mancanza di criteri quantificatori del danno anche ricorrendo al principio di equità (il mobbing causa sempre danni), ecc…
Per il nostro Paese auspichiamo quindi una legge che, oltre ad una regolamentazione del fenomeno sul piano penale, preveda un inquadramento definitorio dei vari fenomeni, incentivando la prevenzione specifica (anche con codici di comportamento), prevendo espressamente la responsabilità disciplinare in capo mobber, regolamentando l’azione in giudizio, eventualmente anche in via d’urgenza. E’ inoltre fondamentale alleggerire gli oneri di prova anche attraverso un’equiparazione ed una pienaassimilabilità del fenomeno del mobbing alle discriminazioni, attraverso una tutela specifica per i testimoni contro possibili ritorsioni, attraverso un sistema di “pubblicità” del provvedimento di condanna del giudice ed anche introducendo un automatismo nella quantificazione del danno non patrimoniale da mobbing.
v. post pubblicato su ilfattoquotidiano.it in data 22 luglio 2015