– PRIVACY, TRATTAMENTO DEI DATI E RAPPORTO DI LAVORO –
Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 10 maggio 2018 n. 11322
Non è illecita, e dunque non è sanzionabile, la condotta del lavoratore che “per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda” abbia svolto riprese audiovisive e fotografiche dei locali aziendali e dei colleghi, al fine di precostituirsi un mezzo di prova ed evitare di vedere la propria posizione pregiudicata dalla condotta altrui.
Questo il principio espresso dalla Cassazione, per cui la produzione di materiale video, audio e fotografico che rappresenti anche persone terze non costituisce un illecito ai sensi del D.Lgs 196/2003 laddove tali registrazioni siano finalizzate alla difesa rispetto ad una contestazione disciplinare.
In particolare la Corte, dopo aver ripercorso la nozione di “trattamento di dati” ai fini della normativa, afferma in maniera convincente, rafforzando così il proprio orientamento, che si può derogare la regola del consenso al trattamento nel momento in cui vi sia la necessità di difendere o far valere un diritto in sede giudiziaria, in ossequio al generale principio di difesa e di contraddittorio.
Pertanto, tra la tutela della riservatezza dei dati personali e quella di difesa, la Cassazione privilegia la seconda: nel caso di specie, il fatto addebitato al lavoratore – l’aver registrato conversazioni con dei colleghi – non può neppure ritenersi disciplinarmente rilevante.
– UNICO CENTRO DI IMPUTAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO E RESPONSABILITA’ SOLIDALE –
Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 28 marzo 2018 n. 7704
Nel caso in cui un lavoratore presti contemporaneamente la propria attività lavorativa in favore di due datori di lavoro, senza possibilità di distinguere quanto sia svolto in favore dell’uno e dell’altro – entrambi ugualmente fruitori della prestazione – non solo si configura unicità del rapporto di lavoro ma, ai sensi dell’art. 1294 c.c., i due datori di lavoro devono essere considerati solidalmente responsabili delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto di lavoro.
– DANNO DA STRAINING –
Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 29 marzo 2018 n. 7844
In particolare, secondo la Corte di Cassazione, si deve parlare di straining in tutti i casi in cui il lavoratore subisce azioni ostili anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo (quindi non rientranti, tout court, nei parametri del mobbing), ma tali da provocare in lui una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.
Il datore di lavoro ha quindi l’obbligo, ai sensi dell’art. 2087 cod.civ., di evitare tali situazioni e, in caso di omissione e quando queste situazioni abbiano provocato un danno al lavoratore interessato, lo stesso dovrà essere riconosciuto anche attraverso il ricorso a presunzioni e con valutazione equitativa da parte del giudice di merito.
– LICENZIAMENTO DISCIPLINARE –
Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza 10 aprile 2018 n. 8779
In ipotesi di licenziamento disciplinare, la Corte di Cassazione conferma il proprio orientamento sostenendo che il Giudice di merito ha sempre il potere / dovere di valutare la gravità del fatto ai fini della proporzionalità della massima sanzione espulsiva, in considerazione della natura aperta della nozione di giusta causa di licenziamento: questo principio non viene meno neppure allorquando la contrattazione collettiva preveda fattispecie tipiche di addebiti riconducibili al concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento come ad esempio la recidiva in relazione a precedenti addebiti disciplinari. Anche in siffatta ipotesi, non viene meno il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei fatti addebitati, al fine appunto di valutare la proporzionalità della sanzione ai comportamenti effettivamente accertati.