di Chiara Vannoni, luglio 2013
Ad un anno di distanza dall’entrata in vigore della Legge Fornero è possibile formulare le prime considerazioni specialmente sulla tematica di maggiore rilievo e impatto pratico, quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – cioè il caso del “licenziamento economico” – e sulle conseguenze in termini di tutela applicabile.
Le riflessioni che si intendono fare in questa sede riguardano in realtà solo l’ambito del cosiddetto licenziamento economico, cioè il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e relativo onore della prova in capo al datore di lavoro, sia in termini di allegazione e dimostrazione dei fatti posti alla base del licenziamento che per quanto concerne l’ulteriore “scoglio” del repechage.
Pertanto, anche se la precisazione è superflua, vale la pena ricordare che la Legge Fornero non è intervenuta sulle “causali” del licenziamento che sono rimaste quindi le stesse regolate dal codice civile e dalla L. 604/1966, ma opera in termini di conseguenze del licenziamento stesso.
Prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero, infatti, a fronte di un licenziamento illegittimo irrogato nell’ambito della “tutela reale”, cioè un licenziamento operato dal datore di lavoro con più di 15 dipendenti, l’unica e inevitabile conseguenza era quella reintegratoria.
L’art. 18 L. 300/1970 nella sua precedente formulazione non lasciava spazio a sfumature e, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento per carenza del motivo addotto ovvero anche per mancato rispetto dell’obbligo di ricollocare il lavoratore presso un altro settore o reparto (appunto, il repechage), il Giudice non aveva altre soluzion i che condannare il datore di lavoro alla reintegrazione.
Pertanto, prima del luglio 2012, per una consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità formata si in oltre quarant’anni di applicazione pratica delle norme sul motivo del licenziamento, spettava (e spetta tuttora per quanto si dirà infra) al giudice il controllo circa l’assolvimento da parte del datore di lavoro dell’onere di provare tre fatti: 1) l’effettiva sussistenza delle modifiche organizzative addotte; 2) la loro concreta incidenza sulla posizione rivestita dal lavoratore in azienda; 3) l’impossibilità di utilizzare il lavoratore in mansioni equivalenti o, eventualmente, anche inferiori (1).
Questi tre elementi erano valutati nella loro effettività e sussistenza per la verifica della legittimità del licenziamento sulla base della motivazione addotta dal datore di lavoro; in particolare, per quanto riguarda l’accertamento sul repechage, va ricordato che tale requisito era strettamente connesso e derivava dalla natura stessa di extrema ratio del licenziamento, per cui – come è stato affermato – dall’impossibilità di ricollocare il lavoratore derivava l’impossibilità giuridica della prosecuzione del rapporto.
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La situazione attuale – cioè successiva al luglio 2012 – è modificata solo per quanto concerne le conseguenze del licenziamento ed è differenziata a seconda del vizio del provvedimento datoriale: il legislatore della riforma ha infatti modulato la sanzione nel senso di prevedere la reintegrazione solo nel caso di nullità del licenziamento perché discriminatorio o determinato da motivo illecito, mentre negli altri casi la tutela assume forme più attenuate, come l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione con indennità risarcitoria limitata ovvero come la sola indennità risarcitoria.
L’interrogativo – tutt’altro che residuale – e la questione attorno a cui si dibatte, è relativo alla valutazione dell’obbligo di repechage da parte del giudice, cioè se tale onere sia anche esso da ascriversi ai “fatti posti alla base del licenziamento” ovvero se sia solo un quid pluris, una conseguenza ulteriore, successiva in termini logici alla valutazione sulla motivazione del licenziamento (per esempio, licenziamento determinato dalla soppressione delle mansioni o dalla esternalizzazione delle lavorazioni).
Peraltro, la difficoltà interpretativa risiede inoltre nel fatto che nessuna delle norme di rilievo in materia di licenziamento (e quindi né l’art. 3 della L. 604/1966, né l’art. 18 della L. 300/1970 a prescindere dalla formulazione) hanno mai esplicitato direttamente il concetto e la definizione di repechage che è nato sulla base dell’esercizio interpretativo della giurisprudenza.
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Secondo la giurisprudenza formatasi prima della riforma Fornero l’onere di repechage e il suo assolvimento rientravano tra i “fatti posti alla base del licenziamento” esattamente come la motivazione oggettiva indicata.
A questa indicazione si perviene soprattutto in considerazione del fatto che nessuna norma faceva distinzioni rispetto al “fatto” e alla sua sussistenza o insussistenza, come è ora invece indicato in modo sufficientemente sibillino dall’art. 18, comma 7, L. 300/1970 come modificato dalla L. 92/2012.
Pertanto, tra gli elementi che il giudice era chiamato a valutare vi era anche la questione del ripescaggio del dipendente, posto che nel caso di illegittimità la conseguenza era solo una, cioè la reintegrazione.
Ritenere il repechage un “fatto” alla base del licenziamento appare anche oggi la preferibile nonostante la controversa formulazione del nuovo testo dell’art. 18 commi 4 – 5 – 7, laddove viene disposto che il giudice “…può altresì applicare la predetta disciplina (quella della reintegrazione attenuata, cioè accompagnata da un risarcimento limitato ex art. 18, comma 4, L. 300/1970, NdR) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma (cioè la sola tutela risarcitoria, NdR).
Accedendo a questa soluzione, quindi, si deve concludere nel senso che nel caso nel giudizio promosso contro il licenziamento non sia provato né il motivo oggettivo, né l’impossibilità di collocare il dipendente in altre mansioni o reparto, il giudice deve concludere accertando la c.d. “manifesta infondatezza del fatto”, ritenendo quindi la nozione di “fatto” nel senso ampio e accedendo alla interpretazione per cui il repechage si esplica al livello della motivazione del licenziamento, nel senso che in presenza della possibilità di ricollocare il dipendente su altre mansioni o reparto non può giustificare il venire meno dell’interesse alla prestazione lavorativa.
In questo senso quindi il “fatto” rappresentato dal giustificato motivo oggettivo ricomprende anche l’allegazione e la relativa prova circa la possibilità o impossibilità di ricollocare il dipendente: il “fatto” assume quindi un proprio senso giuridico ulteriore rispetto al solo fatto materiale secondo questa interpretazione e sulla scorta delle pronunce sia di merito che di legittimità degli anni passati, tanto che si può affermare che l’insussistenza del fatto quale motivo del licenziamento deve ravvisarsi nella impossibilità di una utile prosecuzione del rapporto di lavoro.
Calando queste interpretazioni all’interno del nuovo testo dell’art. 18, comma 7, si dovrebbe potere affermare che in tutti i casi in cui non sia accertata l’impossibilità alla prosecuzione del rapporto il giudice può applicare la tutela reintegratoria attenuata, sulla scorta del dettato normativo che parla di “manifesta insussistenza del fatto”.
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La conclusione non è però così ovvia né pacifica, laddove la prima ordinanza registrata sul punto ha stabilito diversamente e in particolare, ha escluso la reintegrazione nella forma attenuata e disposto solo il risarcimento economico (nella fattispecie di licenziamento motivato dalla cessazione dell’appalto a cui era addetto il lavoratore, senza che fosse provato dal datore di lavoro l’impossibilità di ricollocare il dipendente su altri appalti).
In particolare il Tribunale di Milano ha affermato che la mancata prova dell’impossibilità di reimpiegare il dipendente licenziato “…esula propriamente dal costituendone invero una conseguenza nel senso che il datore di lavoro – una volta venuta meno la posizione lavorativa – è tenuto, prima di recedere dal contratto, a verificare se vi sia la possibilità di ricollocazione del dipendente all’interno dell’azienda”.
Il Tribunale di Milano con l’ordinanza indicata, del 20 novembre 2012, di fatto sostiene che con la locuzione “insussistenza del fatto” si debba fare solo riferimento al fatto materiale e cioè alla effettiva soppressione delle mansioni, del reparto, della cessazione dell’appalto, mentre l’obbligo di repechage rileverebbe solo nell’ambito della valutazione del “comportamento delle parti” e cioè solo in ragione della tutela risarcitoria.
Secondo la via aperta dal Tribunale di Milano, che però non può essere considerata come granitica vista l’estrema variabilità delle decisioni e l’attuale incertezza che caratterizza tutto l’ambito di applicazione investito dalla Legge Fornero, la “manifesta insussistenza” risulta riconducibile all’ipotesi in cui non sia provata l’effettività della scelta organizzativa, mentre qualora non sia provata l’impossibilità di procedere al repechage si ricadrebbe in una ipotesi di sola “insussistenza” non manifesta.
Va peraltro notato che nel caso specifico di cessazione del contratto di appalto sono in genere previste già a livello di Contrattazione Collettiva procedure che consentono il passaggio dei dipendenti all’impresa subentrante: questo rilievo, che ha trovato spazio in una successiva ordinanza sempre del Tribunale di Milano, successiva a quella sopra richiamata, può essere interpretato come anche il mancato passaggio diretto alle dipendenze della subentrante rileva sotto il profilo della sussistenza del fatto, dal momento che la tutela contrattuale si aggiunge a quella normativa.
In questo senso pertanto, la manifesta insussistenza sarebbe ravvisabile anche laddove appunto il datore di lavoro non abbia provveduto o a dare corso alle tutele contrattuali ovvero, argomentando in via generale e di principio, laddove non abbia dimostrato l’impossibilità della prosecuzione del rapporto.
La soluzione preferibile appare quindi quella sempre adottata, nel senso di ritenere che l’onere di repechage sia un elemento indefettibile del “fatto giuridico” ricondotto sotto la previsione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguenza che la manifesta insussistenza o della motivazione organizzativa ovvero anche del repechage può aprire la via alla reintegrazione attenuata.
(1) Fra le tantissime, v. Cass., 12 maggio 2000, n. 6134; Cass., 14 giugno 2000, n. 8135; Cass., 16 dicembre 2000, n. 15894; Cass., 7 gennaio 2002, n. 88; Cass., 17 febbraio 2003, n. 2353; Cass., 20 agosto 2003, n. 12270.