di Chiara Vannoni, avvocato Giuslavorista in Milano.
Nei mesi trascorsi dal luglio 2012, cioè dall’entrata in vigore della nota Legge 92/2012, ormai nota come “Legge Fornero”, la maggiore attenzione dei commentatori e degli addetti ai lavori si è concentrata in particolare su due aspetti: la modifica sostanziale dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori a distanza di oltre quarant’anni di vigenza del testo precedente e, da un punto di vista invece squisitamente processuale, l’introduzione di un rito ad hoc per i licenziamenti per i quali risulta applicabile la disciplina del nuovo art. 18.
La legge Fornero però è intervenuta in maniera importante praticamente in tutto il panorama legislativo e contrattuale del mercato del lavoro, modificando istituti contrattuali già presenti e recependo le indicazioni dottrinali e giurisprudenziali sviluppatesi negli ultimi anni.
Di particolare interesse sono le modifiche apportate al contratto a progetto, in considerazione dell’uso massiccio di tale forma contrattuale negli anni passati, uso molto spesso improprio come evidenziato dalle pronunce giurisprudenziali alle quali appunto la Legge di riforma si è almeno in parte ispirata.
Breve excursus dell’evoluzione normativa fino alla L. 92/2012.
Il contratto di lavoro a progetto è stato introdotto nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 276/2003, con l’intento di arginare l’uso alle forme di collaborazione parasubordinata, cioè i noti contratti “co.co.co” ovverosia le “collaborazione coordinate e continuative”, quelle forme di collaborazione ricondotte all’art. 409 n 3 del codice di procedura civile e sostanzialmente caratterizzate dal carattere prevalentemente personale della collaborazione e dell’assenza (vera o, più di sovente, solo asserita) assenza di subordinazione.
Nella pratica quotidiana e soprattutto durante gli anni Novanta, questa forma di collaborazione celava il più delle volte un rapporto di lavoro effettivamente subordinato, carente delle tutele tipiche di tale rapporto sia in termini economici che normativi.
L’intento del legislatore del 2003 era appunto quello di trasformare le “collaborazioni coordinate e continuative” in rapporti “a progetto”, cioè ancorare la prestazione ad un oggetto predeterminato (cfr. artt. 61 e ss, D.Lgs. 276/2003 nel testo originale). A distanza di quasti dieci anni dall’entrata in vigore del D.Lgs. 276/2003 la Legge Fornero interviene perseguendo l’obiettivo dichiarato di “evitare utilizzi impropri (del tipo lavoro a progetto, NdR) in sostituzione di contratti di lavoro subordinato”.
La pratica successiva ha però evidenziato una permanenza di storture dell’istituto, che ha continuato a celare rapporti di lavoro intrinsecamente subordinati, determinando un inasprimento del fenomeno del precariato.
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La riforma contenuta nella L. 92/2012: specificità, risultato finale, divieto di attività ripetitive: le novità principali.
Recependo le indicazioni giurisprudenziali e dottrinali emerse nel corso di un’applicazione decennale dell’istituto, la nuova disciplina del contratto a progetto valorizza la necessità di ricondurre la prestazione lavorativa ad un “progetto specifico, determinato dal committente e gestito autonomamente dal collaboratore”, in cui “il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere nella mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente”. Inoltre, il nuovo testo dell’art. 61 D.Lgs. 276/2003 dispone altresì che “il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi”, delegando ai contratti collettivi l’eventuale individuazione di tali mansioni.
Pertanto, rispetto alla disciplina previdente, ora il contratto a progetto – per la cui validità è sempre prevista la forma ad probationem e la specificazione del risultato finale rispetto al quale la prestazione deve essere finalizzata – deve altresì precisare in cosa consista il risultato finale, che non può consistere nella riproposizione del core business dell’impresa, ma deve essere qualcosa di specifico e, in un certo senso, innovativo.
La caratteristica principale che si intravede nella riforma del contratto a progetto è quindi proprio l’esercizio di recepimento delle indicazioni giurisprudenziali, che già nei primissimi anni di applicazione avevano evidenziato le potenziali storture cui si prestava, e cui facilmente si presta, il tipo contrattuale in parola.
Così, secondo il Tribunale di Torino, nella ricordata e nota sentenza del 5 aprile 2005 “anche a non intendere la specificità quale “individualizzazione” del progetto sul singolo collaboratore non si può accettare l’estremo opposto, verificatosi nel caso di specie, di una standardizzazione di centinaia di contratti a progetto in tutto e per tutto identici tra loro, ed identici altresì all’oggetto sociale; tale standardizzazione conferma che ai collaboratori non è stato affidato uno specifico incarico o progetto o una specifica fase di lavoro ma, in totale, l’unica attività che non può che essere identica per tutti, l’attività aziendale in se stessa”.
Allo stesso modo, numerosissime sentenze censuravano l’illegittimità del contratto a progetto laddove risultava che l’attività demandata al collaboratore era, di fatto, quella dell’oggetto sociale del committente: il nuovo testo dell’art. 61 quindi si inserisce in questo solco e cristallizza la necessità – come sempre indicata dalla migliore giurisprudenza – per cui il progetto, “…deve sempre distinguersi dalla normale attività dell’impresa, costituendo un obiettivo o un tipo di attività che si affianca all’attività principale senza confondersi con essa”.
Esercizio fondamentale dell’interprete e degli addetti ai lavori sarà in primo luogo verificare se il progetto è indicato, potendosi supporre due ipotesi frequenti: la mancanze del progetto e la sua genericità, ovvero al contrario l’eccessiva specificità che potrebbe poi determinare una contrazione dell’autonomia.
Nello stesso senso si deve leggere l’indicazione per cui contratto a progetto non può avere ad oggetto compiti meramente esecutivi o ripetitivi: l’idea è quella per cui – come si è osservato più volte – oggetto del progetto debba essere un’attività effettivamente innovativa per l’impresa, non attuabile con le professionalità “ordinarie” presenti e in cui quindi l’attività del collaboratore, pure inserita funzionalmente nella organizzazione aziendale, rappresenti un quid pluris con un inizio, uno svolgimento e una fine, coincidente con il raggiungimento del risultato finale.
Al riguardo è necessario sottolineare la circolare n. 29 del 11 dicembre 2012 del Ministero del Lavoro, che fornisce alla Direzioni per l’attività ispettiva le prime linee guida operative.
Correttamente, la circolare in parola indica a titolo esemplificativo una serie di attività “difficilmente inquadrabili nell’ambito di un genuino rapporto a progetto”, quali ad esempio il personale di pulizia, baristi e camerieri, commessi, magazzinieri, addetti ad attività di segreteria: tutte mansioni queste che chiaramente non consentono, salva ovviamente la prova contraria ammessa, una prestazione finalizzata ad un risultato, posto che si presentano come attività “di durata”.
Le modalità di esecuzione della prestazione hanno infatti sempre tracciato il confine tra collaborazione genuina e subordinazione: per distinguere quindi il progetto “autentico” dal rapporto ex art. 2096 cod.civ. sarà quindi sempre necessario verificare in che termini il committente interviene nel rapporto. Infatti, è stato correttamente osservato che mentre nel rapporto di lavoro subordinato il lavoratore è sottoposto ad un potere di indirizzo per così dire costante del datore di lavoro, che appunto può chiedere variazioni alla prestazione lavorativa per meglio adattarla alle esigenze (il famoso jus variandi), nel rapporto a progetto effettivamente genuino il potere direttivo del committente si manifesta solo nel momento genetico del contratto, cioè proprio allorquando il committente “determina il progetto”. Durante lo svolgimento del rapporto, che è concepito per essere temporaneo, pertanto, il committente potrà solo fornire indicazioni sul necessario “coordinamento con l’attività aziendale”, nel senso di indicazioni spazio-temporali, ma che non potranno mai essere tali da determinare una contrazione o esclusione dell’autonomia del collaboratore.
L’intervento chiarificatore della Legge 92/2012: presunzione relativa e assoluta di subordinazione.
Altro, importantissimo, elemento di novità è contenuto nel comma 24 dell’art. 1, L. 92/2012, laddove il legislatore chiarisce definitivamente i dubbi interpretativi circa la natura della presunzione di subordinazione, stabilendo con norma di interpretazione autentica che “…l’art. 69, comma 1, del d.lgs. 276/2003 si interpreta nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale per la validità del rapporto (…) la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”: è chiarito quindi dall’assenza del progetto deriva, con presunzione assoluta, la costituzione del rapporto di tipo subordinato, senza possibilità per il committente di provare la genuinità del rapporto di collaborazione.
Dottrina e giurisprudenza avevano dibattuto sin dall’inizio sulla natura della presunzione indicata dalla norma, in merito alla sanzione della conversione del rapporto a progetto in rapporto a tempo indeterminato, propendendo chiaramente per la natura di presunzione assoluta di subordinazione. La famosa circolare 1/2004 del Ministero del Lavoro aveva però contribuito a confondere le idee, posto che aveva optato per la natura relativa della presunzione.
La norma di interpretazione autentica chiarisce quindi definitivamente il punto per quanto concerne le ipotesi di assenza assoluta del progetto; rimane invece il regime di presunzione relativa per la disposizione inserita quale nuovo secondo comma dell’art. 69, sulle “sanzioni civilistiche” della illegittimità del contratto: viene infatti indicato che il contratto a progetto si considera quale rapporto di lavoro subordinato nel caso in cui l’attività del collaboratore si sia svolta con modalità analoghe a quelle dei dipendenti, con possibilità per il committente di provare che le “modalità” non comportavano una sovrapposizione delle “attività”.
La sanzione civilistica quindi rimane invariata (cioè la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo subordinato), con una importante indicazione in termine di ricaduta processuale e cioè il citato regime di presunzioni.
Naturalmente, a fianco della sanzione indicata il committente-datore di lavoro dovrà sopportare le eventuali differenze retributive, in particolare modo per quanto attiene all’incidenza degli istituti contrattuali sul TFR, ma anche contributive, con le regolarizzazioni presso l’INPS.
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L’art. 69bis: altre prestazioni di lavorative rese in regime di lavoro autonomo. Brevi cenni.
Quale ultimo aspetto, è da segnalare il tentativo fatto dalla Legge Fornero di contrastare il fenomeno delle false partite iva, cioè di quelle forme di collaborazione, o più spesso di vero e proprio rapporto subordinato, inquadrate in realtà come forma di lavoro autonomo e quindi al di fuori di qualunque forma di garanzia.
Rispetto quindi alle prestazioni rese da particolari categorie di soggetti – cioè appunto i titolari di partita iva – il meccanismo scelto dalla normativa è quello di prevedere delle condizioni rispetto alle quali è prevista l’applicazione delle norme sul lavoro a progetto ed eventualmente, infine, i meccanismi sanzionatori della costituzione del rapporto subordinato.
In particolare, le condizioni a fronte delle quali scatta una presunzione (relativa) sono: a) la durata della collaborazione con lo stesso committente per almeno 8 mesi rispetto all’anno solare; b) che oltre l’80% del fatturato provenga da un medesimo committente; c) la disponibilità di una postazione fissa presso il committente.
In presenza di due di queste tre condizioni scatta la riqualificazione del rapporto come collaborazione a progetto, con le conseguenze proprie già illustrate.
Peraltro, la presunzione di collaborazione è esclusa in due ipotesi: a) quando la prestazione di lavoro risulta connotata da competenze teorico pratiche elevate e la persona (collaboratore a partita iva) sia titolare di un reddito imponibile da lavoro autonomo “non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali di cui all’art. 1, comma 3, legge 2 agosto 1999, n. 223” (cioè, il reddito da lavoro autonomo viene parametrato al reddito minimo di artigiani e commercianti, NdR); b) quando la prestazione lavorativa sia svolta nell’esercizio di attività che richiedono l’iscrizione obbligatoria ad un ordine professionale, albo, registro (come ad esempio il caso degli avvocati).
L’introduzione di questa specifica disciplina può rappresentare un primo passo avanti nel contrasto dei vari fenomeni di lavoro subordinato variamente irregolare: l’analisi è però ancorata alla sussistenza di due delle tre condizioni richieste per fa scattare l’applicazione delle norme sul lavoro a progetto e, in ogni caso, limitata a livelli retributivi piuttosto contenuti posto che il limite reddituale per il 2012 era inferiore ai 15.000,00 euro annui, che di fatto potrebbe male accordarsi con il requisito della continuità della collaborazione per almeno otto mesi nell’anno solare.