Premessa
L’articolo 2095 c.c. distingue i prestatori di lavoro subordinato in quattro categorie: dirigenti, quadri, impiegati ed operai. Tale norma non ha tuttavia contenuto definitorio ed è alla legislazione speciale che, in via diretta o indiretta, deve farsi riferimento per qualificare la figura dirigenziale (e le altre figure professionali). Generalmente si tratta di qualificazione in negativo, basata sulla non applicazione a tale figura professionale di discipline specifiche del rapporto di tutti gli altri lavoratori subordinati. Tra queste, ad esempio, la disciplina in materia di orario, riposi e, per quel che qui ci interessa, la tutela contro i licenziamenti.
Ad un simile vuoto definitorio ha supplito la contrattazione collettiva, nelle cui declaratorie è dato rinvenire elementi caratterizzanti la figura professionale del dirigente, che indubbiamente si connota per un’ampia autonomia, per un generale potere decisionale, e che svolge altresì una attività diretta a promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi aziendali. Come ha precisato recentemente la Corte di Cassazione (sent. 24 giugno 2009 n. 14835) la professionalità richiesta al dirigente prescinde dalla conoscenza tecnica strettamente intesa, e, al contrario, si caratterizza soprattutto per la capacità di calarsi nelle problematiche aziendali, di gestire l’impresa (altrui) garantendone il buon funzionamento in linea con le direttive, ampie e generali, fornite dall’imprenditore, del quale il dirigente si pone, in particolare nei confronti dei terzi, come “alter ego”. Inoltre, per orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ciò che caratterizza e distingue il dirigente dal quadro è la autonomia e la discrezionalità nelle decisioni assunte, la mancanza di una vera e propria dipendenza gerarchica dall’imprenditore e, da ultimo, l’ampiezza delle mansioni e delle funzioni attribuitegli, che sono tali da influire non solo su un settore dell’azienda, ma su tutta l’attività della stessa o di un suo ramo autonomo. Vi sarebbe infatti incompatibilità tra la qualifica dirigenziale e l’esercizio di mansioni con un vincolo di stretta dipendenza gerarchica (cosa che, al contrario, si rinviene in tutte le altre categorie), e ciò a prescindere dalle dimensioni dell’azienda posto che, perché possa ritenersi validamente sussistente la qualifica dirigenziale, anche all’interno di organizzazioni aziendali strutturate su più livelli, con compiti graduati e nelle quali è dato rinvenire una ripartizione in high, medium e low management, deve potersi ravvisare, anche nel dirigente appartenente al livello inferiore, una vasta autonomia decisionale che può e deve trovare solo un “coordinamento” (e non, quindi, una vera e propria dipendenza gerarchica) con il potere direttivo generale del manager di livello superiore (in tal senso già Cass. 22 gennaio 1999 n. 618). In difetto, si è in presenza di ciò che la dottrina qualifica come “pseudo dirigente”, al quale è solo attribuita la qualifica dirigenziale, ma che non può di fatto esercitare i poteri direttivi tipici di tale ruolo. Una volta chiarito, seppure nelle linee generali, chi può essere definito come “dirigente” e rivendicare in giudizio la relativa qualifica, passiamo all’analisi delle modalità con le quali è possibile, o non è lecito, addivenire al licenziamento del medesimo.
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