Il mobbing è “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili”. Dalla definizione di mobbing accolta dalla giurisprudenza (ma coniata dallo psicologo del lavoro Heinz Leymann e non regolamentata da una specifica norma giuridica) si potrebbe dedurre che un clima lavorativo generalmente teso e ostile nei confronti di una pluralità di lavoratori non dovrebbe integrare la sopra citata nozione. Ciò posto ci si deve tuttavia chiedere se chi aggredisce, vessa e umilia quotidianamente i propri colleghi o sottoposti possa ritenersi esente da ogni forma di responsabilità e colpa.
E’ stato riproposto in questi giorni (http://www.apost.com/it/blog/uno-studio-rivela-che-un-capo-cattivo-puo-far-ammalare-i-dipendenti/440/?utm_content=buffer6676b&utm_medium=QuizIT&utm_source=facebook.com&utm_campaign=buffer&m=f) uno studio pubblicato nel 2015 dalla rivista americana Quartz (https://qz.com/534789/whats-worse-for-you-your-boss-or-smoking-a-pack-a-day/) nel quale sono state raccolte e analizzate le indagini svolte dall’American Phsycology Association, dalla Harvard Business School e dalla Stanford University in tema di disagio lavorativo.
Con l’efficace titolo “What’s worse for you-your boss, or smoking a pack a day?”, il contributo afferma che un capo cattivo può essere per i propri dipendenti altrettanto dannoso del fumo passivo. Più a lungo si rimane a lavorare per qualcuno che adotta comportamenti che inducono uno stato di stress nel lavoratore, maggiore è il danno alla sua salute fisica e mentale.
L’articolo, quindi, non muove da un caso di mobbing, ma dallo studio degli effetti che un ambiente lavorativo complessivamente ostile e dannoso può avere sui lavoratori, dove per ambiente lavorativo dannoso – nello specifico – si intende un “capo cattivo” nei confronti della generalità dei lavoratori.
Chiaramente una situazione di questo tipo è allarmante e come tale deve trovare l’idoneo mezzo di tutela, che non sembra essere espressa da una recente sentenza della Cassazione (n. 2012 del 26 gennaio 2017) nella quale la Corte si è pronunciata sul caso di un lavoratore che ha denunciato un lungo, costante e duraturo processo di azioni vessatorie ed intenzionali da parte del suo diretto superiore gerarchico.
Il lavoratore ha contestato il linguaggio scurrile e ingiurioso adoperato per impartire gli ordini, il muovere rimproveri in pubblico, l’impartire ordini inutili e l’intimazione ai colleghi di non parlare con il lavoratore: questi atteggiamenti avrebbero causato nel lavoratore l’insorgenza di severe conseguenze sulla salute.
L’esame testimoniale dei colleghi ha delineato la circostanza per la quale il superiore aveva un brutto carattere, alzava quotidianamente la voce e aveva un atteggiamento aggressivo nei confronti di tutto il personale indistintamente.
Ebbene, a dire della Corte questo atteggiamento, seppur severo e autoritario, non poteva essere indice di un intento persecutorio, ma era il modo della persona di esercitare le prerogative di superiore gerarchico, con la finalità di “scongiurare disservizi e garantire l’efficienza del reparto”.
Questa sentenza della Corte di Cassazione deve indubbiamente condurre a una riflessione, dato che il tema della salute del lavoratore, il benessere lavorativo e organizzativo, la definizione di molestie contenuta anche nei decreti antidiscriminatori (dove molesta è considerata ogni condotta perpetrata per ragioni discriminatorie volta a creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo), l’adozione di codici di condotta e codici etici da parte di molte aziende, soprattutto di grandi dimensioni, vanno in una direzione diversa e contraria: la direzione che impone il rispetto della persona, sempre e comunque.
La sfida e il proposito per il presente e per il futuro devono quindi essere individuati nella tutela dei diritti fondamentali del lavoratore (libertà, dignità e salute) non solo come singolo, ma anche in quanto appartenente a un gruppo che divenga destinatario indistinto dell’aggressività di un capo che sta ricoprendo un ruolo per il quale non è – almeno sul piano etico e relazionale – per nulla adeguato.