Annalisa Rosiello, avvocato giuslavorista in Milano, marzo 2014
Premessa
La Corte di Giustizia della Comunità Europea-Unione Europea (13 febbraio 2014, C-596/12, Commissione c. Repubblica italiana) ha pronunciato un’importante sentenza che non potrà non avere significativi riflessi relativamente alla disciplina del licenziamento dei dirigenti per crisi o ristrutturazione e, più in generale, nella gestione delle riduzioni di personale all’interno delle aziende. La sentenza, in estrema sintesi, ha sancito che l’Italia non ha correttamente adempiuto alla direttiva concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, dal momento che non ha esteso la procedura di messa in mobilità (e, si ritiene, relativi annessi e connessi, inclusi i criteri di scelta) e di licenziamento collettivo anche ai dirigenti.In altri termini la Corte stabilisce che l’Italia – pur includendo tra le “categorie dei prestatori di lavoro”, art. 2095 c.c. anche i dirigenti – male ha fatto ad escluderli dalla disciplina procedimentale dei licenziamenti collettivi. Tale disciplina (l. 223/1991 e successive integrazioni e modifiche) è di derivazione comunitaria, ed è contenuta nella direttiva 98/59/CE, che “non ammette, né in modo esplicito né in modo tacito alcuna possibilità per gli stati membri di escludere dal suo ambito di applicazione questa o quella categoria di lavoratori”.
Il procedimento di infrazione nel caso specifico
La Corte del Lussemburgo aveva infruttuosamente avviato una procedura per infrazione avviata contro l’Italia dalla Commissione europea (artt. 258-259 TFUE, Testo Unico per il funzionamento dell’UE). La Commissione europea aveva, in particolare, notificato all’Italia un inadempimento rispetto agli obblighi imposti dalla Direttiva 98/59/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. Tale inadempimento, come accennato sopra, consisteva nell’esclusione dall’ambito di applicazione della l. 223/1991 e successive modifiche della categoria di lavoratori denominata “dirigenti”. Le mancate convincenti risposte sul punto della Repubblica italiana e la perdurante inerzia hanno determinato il ricorso della Commissione alla Corte di Giustizia.La sentenza con cui si conclude tale procedimento giurisdizionale ha natura dichiarativa in base all’art. 260, TFUE. In particolare, in base a tale disposizione normativa “Quando la Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta. (…) La Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità”. Sull’efficacia della sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia si tornerà nel prosieguo.
Il contenuto della sentenza
La Corte di Giustizia accoglie il ricorso presentato dalla Commissione europea in base ai seguenti argomenti:
a) Ambito soggettivo di applicazione della Dir. 98/59/CE – In base all’art. 1 della Direttiva per licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore. La definizione è poi seguita da ulteriori requisiti temporali e quantitativi. La Corte di Giustizia precisa che occorre fare riferimento alla nozione comunitaria di lavoratore incentrata sull’esercizio del potere direttivo. La categoria dei “dirigenti” è sicuramente riconducibile alla nozione comunitaria di lavoratore.
b) Esclusione dall’ambito di applicazione della Dir. 98/59/CE – Sempre in base all’art. 1 della Direttiva, sono esclusi dal campo di applicazione i lavoratori a termine, i dipendenti della P.A., gli equipaggi di navi marittime. Inoltre, l’art. 5 sancisce la possibilità per gli Stati membri di introdurre disposizioni o consentire l’applicazione di disposizioni più favorevoli. Per la Corte di Giustizia, tuttavia, la Repubblica italiana non è riuscita a dimostrare che le norme contrattual-collettive che si applicano alle ipotesi di licenziamento dei dirigenti abbiano complessivamente carattere più favorevole rispetto alla protezione minima indicata nella Direttiva.E in effetti la normativa contrattuale italiana (v. ad esempio verbale di accordo 27 aprile 1995 sull’indennità supplementare ai dirigenti industria licenziati per ristrutturazione) prevede erogazioni in denaro, ma non garanzie procedimentali che consentano un controllo/verifica, da parte delle rappresentanze sindacali (in questo caso dei dirigenti) in merito all’effettività e alle motivazioni delle scelte aziendali nonché in merito criteri di scelta dei lavoratori-dirigenti da licenziare. Tale possibilità è, invece, data alle rappresentanze sindacali degli “altri” lavoratori dipendenti (operai, impiegati e quadri).
c) E quindi – La Repubblica italiana nel non consentire che la procedura di informazione e consultazione sindacale si applichi anche alla categoria dei dirigenti priva di effetto utile la Direttiva 98/59/CE ed è venuta meno agli obblighi ivi sanciti.
L’efficacia della sentenza
La sentenza è una sentenza dichiarativa pronunciata a seguito di un ricorso per inadempimento presentato contro la Repubblica italiana dalla Commissione ex artt. 258-259 TFUE. Si tratta dunque di una sentenza diversa dalla sentenza pregiudiziale di interpretazione pronunciata dalla Corte di Giustizia su richiesta di un giudice nazionale al fine di chiarire il significato di una norma comunitaria (art. 267 TFUE).Circa gli effetti prodotti da tale sentenza nell’ordinamento nazionale italiano non vi è tuttavia grande differenza. In proposito, vale il principio generale per cui le statuizioni della Corte di Giustizia hanno operatività ed efficacia immediata negli ordinamenti interni. Per la Corte di Cassazione “nell’ordinamento giuridico dei singoli Stati membri le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità Europee hanno efficacia diretta (Cass. 9 ottobre 1998 n. 10035, Corte cost. 16 giugno 1988 n. 681) e retroattiva in relazione ad ogni pur pregresso rapporto che non sia esaurito (Cass. 20 luglio 1998 n. 7105)”(Cass., 7 agosto 1999, n. 8504).
Le conseguenze della sentenza
a) La procedura di consultazione e informazione sindacale
deve coinvolgere anche i dirigenti (art 2, Dir. 98/59/CE). Tale procedura include l’esame di possibilità destinate ad evitare o ridurre i licenziamenti, attenuarne le conseguenze, ricorrere a misure di accompagnamento. Per l’art. 2, comma 3, Dir. 98/59/CE, l’obbligo di consultazione sindacale comprende l’obbligo di indicare alle rappresentanze sindacali (anche dei dirigenti) le ragioni e il progetto di licenziamento, il numero e le categorie di lavoratori da licenziare, il numero delle categorie dei lavoratori abitualmente impiegati, il periodo in cui si prevede di effettuare i licenziamenti, i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare“qualora le legislazioni e/o le prassi nazionali ne attribuiscano al competenza al datore di lavoro”.
b) Le avvenute cessazioni di rapporti di lavoro con dirigenti per motivi non inerenti alla loro persona si computano al fine del raggiungimento dei requisiti numerici e temporali selettivi dell’applicazione della l. n. 223/1991 (art. 1, Dir. 98/59/CE).
Conclusioni
Il giudice nazionale resta vincolato a dare attuazione al diritto comunitario, ivi comprese le statuizioni della Corte di Giustizia.Del superamento di questa ingiustificata esclusione potranno avvantaggiarsi peraltro non solo i dirigenti, che avranno – tramite la loro rappresentanza – la possibilità di un maggiore controllo sulle scelte aziendali, ma anche le altre categorie di lavoratori, dal momento che più facilmente potrà essere raggiunta la soglia dei licenziamenti richiesta dalla legge (n° 5 nell’arco di 120 gg. in ambito provinciale) per attivare la procedura di informazione e consultazione.